Da solo, sul razzismo, senza mai alzare la voce, ha costretto i dirigenti del calcio italiano a vergognarsi. È il remake di “calcio italiano di merda” di Benitez. Ma Ancelotti è più tosto, ci vogliono tanti altri Giacomelli e Banti
Lo sdoganamento è arrivato domenica sera, nel salottino di Sky. Quando Fabio Caressa, con mille distinguo e trecento mani avanti, l’aveva buttata lì: “Eh ma Ancelotti ha portato il Napoli ai tempi di Benitez”. Che poi è l’ultimo che a Napoli ha vinto qualcosa e ha costruito una squadra che ha retto sei anni. Ma sono quisquilie. Quel che accomuna Benitez e Ancelotti è la loro estraneità, come ben descritto da Raniero Virgilio.
Ancelotti non lo sa, ma Benitez un giorno venne squalificato per una giornata perché i commissari di gara udirono a Parma la frase: “Calcio italiano di merda”. Sì, gli stessi commissari di gara che ogni domenica non sentono i buu razzisti nei confronti dei calciatori neri. In quell’occasione colsero una frase sibilata tra i denti. Guarda un po’ il caso. Senza saperlo, quei commissari fecero un’opera meritoria. Fotografarono una frattura, un momento chiave. L’addio di Benitez al calcio italiano. L’addio di un allenatore deriso come in Italia accade a tutti coloro i quali non si adeguano alla consuetudine. Venne deriso dai giornalisti italiani, dai tifosi del Napoli, dei giornalisti locali non ne parliamo proprio.
Ancelotti non è proprio come Benitez. Anzi, le differenze non mancano. Ma ieri sera il suo “mi sento attaccato come persona” è più o meno la versione riveduta e corretta di “calcio italiano di merda”. E in genere quelli che la pensano così, vanno via e non tornano più. Bisogna avere – per dirla alla De Gregori – “gli occhi dello schiavo” per saltare la staccionata e godersi serate in cui ti regalano rigori al 95esimo dopo averti regalato un uomo in più e non ti fanno nemmeno una domanda scomoda. Del resto, “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare” scrisse Manzoni. E sulle categorie degli uomini, Sciascia è stato definitivo.
Ieri nel suo intervento, che abbiamo trovato particolarmente efficace per tempismo e contenuti, De Laurentiis lo ha detto: “Fossi in Ancelotti, me ne andrei”. Ha colto il tema. Ancelotti è tornato in Italia come se niente fosse. Persino dopo aver rifiutato la Nazionale. Convinto che bene o male potesse lavorare e divertirsi come aveva fatto in giro per l’Europa. Lo ricordava e non lo ricordava il nostro Paese. Con la distanza, si tende a dimenticare gli aspetti spiacevoli e a far accrescere la nostalgia. Poi, va detto, negli ultimi dieci anni il peggioramento è stato notevole. La mediocrità, il servilismo sono stati dilaganti.
“È un attacco alla mia persona”. Beh Ancelotti è l’uomo che, pur allenando una squadra che mediaticamente non esiste (e che a Napoli viene massacrata, giusto per non dimenticare perché la nostra città è stata sempre dominata), praticamente da solo ha posto il tema razzismo nel calcio italiano. E lo ha fatto a modo suo, senza mai alzare la voce. Come non l’ha alzata ieri sera. Né in campo né fuori. Eppure da solo ha messo il calcio italiano in fuorigioco, ha messo il calcio italiano nella condizione di doversi vergognare. Prima di Ancelotti, il teorema Bonucci era quello dominante (a Cagliari disse che Kean aveva sbagliato a rispondere agli ululati razzisti). Lo è ancora, sia chiaro, ma lo è nel chiuso delle stanze. La forma, almeno quella, è salva. La fine, però, è la stessa. Bonucci è rimasto in Italia, alla Juventus, e Kean ha lasciato il calcio italiano.
Però, per “colpa” di Ancelotti, i signori del calcio italiano si sono ritrovati sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, loro che non fecero una piega – anzi difesero – l’immonda conduzione di gara di Mazzoleni lo scorso anno in Inter-Napoli.
E anche ieri sera lui non ha detto nulla a caso. Non ha attaccato l’arbitro in preda alla rabbia. No, lui ha detto ha ha arbitrato il Var. Ha colto la questione politica. Al Var c’era Banti il pensionato che però in pensione non è andato. E perché in campo ci si può sempre sbagliare ma al Var non puoi. Non puoi non vedere che il fallo su Callejon è in area. E non puoi non renderti conto – protocollo o meno – che quello su Llorente è calcio di rigore tutta la vita.
Ancelotti è sotto attacco. Lo abbiamo scritto qui. Lo ha capito. Lo sa. Questo, immaginiamo, non lo spaventa. Se quel che è successo ieri, avrà il potere di compattare l’ambiente – e qualche segnale in questo senso c’è – potrebbe anche essere un momento positivo. Ancelotti non è uno che si arrende. Che continuerà a fornire il suo punto di vista. «È il mio modo di vedere le cose», rispose Noodles a Max nella epica scena finale di “C’era una volta in America”. Ecco, è il suo modo di vedere le cose. Quello di Ancelotti.
Ma una cosa dev’essere chiara ai signori del calcio italiano. Dovranno perseverare. Una semplice accoppiata Giacomelli Banti non basta per fermare Ancelotti. “Quello che non ammazza, rende più forti”. È un uomo di campagna. È tosto. Qualche contrarietà nella sua vita, da calciatore e da allenatore, l’ha superata. Appena appena. Del resto non si diventa per caso testimonial del made in Italy. Nicchi, giusto per fare un esempio, non lo sarà mai.