Ha abbandonato per sette giorni il tiro alla fune con la città e Napoli è riemersa nella sua ineguagliabile vocazione autodistruttiva. Ora sta a lui scegliere cosa fare
L’unica speranza era che De Laurentiis tornasse De Laurentiis. Il Corriere dello Sport, oggi, con un corsivo di Antonio Giordano, ci offre la speranza, ci dice che il velo – che da una settimana è calato davanti agli occhi del presidente del Napoli – potrebbe lentamente sollevarsi. Sarebbe la conferma che Napoli può essere governata solo da lontano. Come del resto lui ha sempre saputo e fatto.
Forse nemmeno De Laurentiis è fino in fondo consapevole dell’opera titanica che ha compiuto in questi quindici anni. In fin dei conti – siamo costretti a constatarlo con amarezza – anche lui risente dell’ambiente che permea la città, e non potrebbe essere altrimenti. Del resto ha inconsapevolmente creato l’unico vero fenomeno culturale cittadino degli ultimi quindici anni: il papponismo (da pappone, termine con cui viene apostrofato: da magistrati, primari, disoccupati, operai, impiegati, studenti, tutti). E nel brodo del papponismo è immerso.
È bastato un suo passo falso per creare uno scompiglio che adesso sì rischia di travolgere il Napoli. L’immagine è quella di un tiro alla fune: lui da una parte e la città dall’altra, con la città che ha sempre tirato a distruggere. Poi, forse perché stanco, un giorno De Laurentiis ha mollato. È successo dieci giorni fa, nella notte tra domenica e lunedì. Ha mandato il suo Napoli in ritiro. Ma, soprattutto – preferiamo metterla in questi termini – ha preso una decisione che ha finito col danneggiare la propria azienda.
Innanzitutto: ha destabilizzato la squadra; siamo certi che senza il suo intervento il Napoli avrebbe battuto il Salisburgo e quindi avrebbe messo al sicuro la qualificazione in Champions. Ed è il primo danno.
Poi, non ha messo in preventivo che i suoi dipendenti gli si rivoltassero contro. Del resto, ci perdonerà, non aveva capito fino in fondo che per un po’ di quei dipendenti andava favorita l’uscita dall’azienda. Un albero che dà frutti, va potato affinché ne dia di più, diceva quel tale che fece una brutta fine. Ed è il secondo danno, potremmo anche dire secondo e terzo. Non a caso, aggiungiamo, tutte decisioni che hanno accresciuto la sua popolarità.
Da lì, dalla sera dell’ammutinamento, De Laurentiis si è smarrito. È calato il velo. Si è attorcigliato in una spirale che non può portare da nessuna parte. La spirale della vendetta cieca. Una volta che ha mollato lui, Napoli è riemersa nella sua ineguagliabile vocazione autodistruttiva. La contestazione ai calciatori (da parte di cinquanta persone) che è stata trattata alla stregua di un cofferatiano corteo di tre milioni di manifestanti (tant’è vero che allo stadio nessuno ha contestato, c’era amarezza ma è un’altra cosa). Due episodi sospetti che hanno allertato un pool di magistrati della Procura di Napoli. Le mogli dei calciatori che sarebbero in fuga dalla città perché non si sentono al sicuro. Insomma Napoli nella sua forma più pura. Finalmente anche i media nazionali hanno potuto tirar fuori i prestampati sulla città rapace, tentacolare, gomorrosa.
Non ci dilunghiamo. La palla è in mano a De Laurentiis. Sta a lui decidere cosa fare della sua creatura. Se vuole esercitare lo ius primae noctis della distruzione, oppure se vuole tornare a tessere faticosamente la tela. Con tutti i limiti e gli errori che commette chi lavora per costruire: e qui c’è anche il ragionamento sul modello aziendale che però, va ricordato, fin qui ha funzionato. Non ci sorprenderemmo di nulla. Talvolta capita di avvertire improvvisamente una stanchezza mai conosciuta prima e di rendersi conto di non farcela più a reggere. È la storia dell’uomo. Noi, ovviamente, speriamo e crediamo che questo momento non sia giunto. Che De Laurentiis torni De Laurentiis e che, con la freddezza che gli è consueta, riporti la barca in porto, riduca al minimo i danni, gestisca con calma la situazione e poi riprenda il largo.