La prima pagina del Corsport e alcune reazioni illustri confermano quanto l’Italia sia ancora indietro. Anche se a volte basterebbe semplicemente chiedere scusa
Il titolone del Corriere dello Sport del 5 dicembre ha fatto scandalo, in Italia e nel mondo.
Per chi non lo avesse visto, lo riassumiamo: le foto di Lukaku e Smalling, che si affronteranno oggi, è la scritta a caratteri cubitali “Black Friday”.
Immediatamente sul web e il giorno dopo con un editoriale, il direttore della testata Ivan Zazzaroni, ha attaccato chi ha stigmatizzato quel titolo, creando un paradosso difficile da spiegare.
Ci proviamo lo stesso, perché la vicenda del titolo del Corriere dello Sport è, secondo noi, un sintomo importante di quanto la cultura razzista sia insita nello sport e nella società italiana.
Partiamo dall’analisi del testo. Due parole: Black Friday, venerdì nero. Il Black Friday è un giorno tradizionalmente, negli USA e oramai anche da noi, dedicato allo shopping. Si celebra il venerdì successivo al giorno del ringraziamento e dà inizio alle iniziative commerciali in vista del Natale. È anche il nome che venne dato al venerdì 24 settembre 1869, in cui crollarono le quotazioni dell’oro. Ma dubitiamo che il titolo facesse riferimento a quell’episodio.
Escludendo che il titolo facesse riferimento allo shopping, che non ha nessuna attinenza con l’incontro tra Roma e Inter, rimane solo l’interpretazione letterale: venerdì perché si gioca di venerdì, nero perché? Lo dicono le fotografie. Perché due giocatori neri, Lukaku e Smalling, saranno prevedibilmente protagonisti del match.
Quindi il nero del titolo è il colore della pelle dei due giocatori. Gli osservatori internazionali, le squadre di Inter, Roma, Fiorentina e Milan e, cosa che più conta, uno dei diretti interessati (Lukaku) non hanno avuto dubbi sulla natura razzista del titolo. Molti altri (ma tutti in Italia) hanno inveito (a sproposito e vedremo perché) contro il politically correct.
Partiamo da un giornalista molto autorevole, almeno quanto è sciocca la sua domanda.
Ma allora proibiamo anche black culture, black music e black bloc?
— Antonio Polito (@antoniopolito1) December 5, 2019
Si chiede, Polito, se bisogna proibire tre locuzioni che contengono la parola black. A parte che nessuno vuole proibire niente, ma si tratta solo di attribuire il giusto valore a quello che si dice, le tre locuzioni sono citate a sproposito e non sono assimilabili al titolo del Corriere dello sport. Sia “Black culture” che “Black music” fanno riferimento a movimenti di emancipazione della popolazione nera statunitense. Gli afromericani hanno usato e in parte usano queste locuzioni in contrapposizione al sistema di potere bianco che dominava e domina ancora la società americana.
La black music nasce a cavallo tra l’800 ed il ‘900 in una società dove è praticato lo schiavismo e alle persone nere non è permesso possedere strumenti musicali. In questa accezione “black” è assimilabile al nostro “femminista”. Si tratta di definizioni che rivendicano il ruolo e l’importanza di una parte della popolazione che non godeva dei diritti civili e politici, che era schiavizzata e segregata, che ancor’oggi non ha raggiunto la piena parità e che ha dovuto lottare e lotta ancora per affermare l’esistenza della propria cultura in una società dominata dai bianchi.
La stessa cosa vale per “Black power”, il movimento attivo tra gli anni ’60 e ’70 e che prende il nome dall’omonimo libro di Richard Wright. Sull’inclusione della locuzione “Black bloc” nella lista di Polito non mi dilungo per humana pietas, mi limito a sottolineare che il nero, in questo caso, si riferisce all’abbigliamento e non al colore della pelle.
Si è inalberato anche il Presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, il quale ha dichiarato:
A me peraltro non sembra proprio, forse gli inglesi, da cui sarebbe partita la polemica, si sono fermati al titolo, ma Roma e Milan, nonostante la proprietà straniera, l’italiano dovrebbero comprenderlo.
Carlo Verna l’ha buttata in politica. A farlo scaldare sono state le reazioni social di Inter, Fiorentina , Roma e Milan e in particolare la decisione di queste ultime due, resa nota con un comunicato congiunto, di allontanare gli inviati del Corriere dello Sport fino a gennaio. Sulla “rappresaglia” dei due club c’è da discutere, ma la prima parte della sua frase ci fa riflettere. In discussione è proprio il titolo che ha scelto il Corriere dello sport, quindi dire “si sono fermati al titolo” è abbastanza tautologico. D’altra parte, aggiungiamo, il titolo a caratteri cubitali in prima pagina ha una diffusione 1000 volte maggiore del testo dell’articolo e si può dare un titolo sbagliato anche ad un articolo buono. Cosa avrebbe dovuto dire secondo noi? Esattamente quello che hanno detto Lukaku e Fonseca: è un titolo stupido e infelice. Non è difficile.
Il paradosso di cui parlavamo all’inizio è quello di Zazzaroni che si scaglia contro i social (ma a giudicare male quel titolo sono state per prime testate giornalistiche, associazioni e, soprattutto gli interessati) è che le sue erano intenzioni antirazziste.
Non è una questione nuova, almeno negli USA. L’anno scorso Robin DiAngelo, una docente universitaria impegnata nella lotta al razzismo, ha pubblicato “La fragilità bianca: perché è così difficile per i bianchi parlare di razzismo“, un libro del quale non condivido il contenuto per intero, ma del quale consiglio la lettura a Zazzaroni. Affronta proprio questo tipo di paradossi e di come anche frasi apparentemente neutre, pronunciate con buone intenzioni, si possano rivelare in realtà razziste. Uno dei consigli più saggi contenuti nel libro è questo:
Quando ricevi feedback, soprattutto da una persona di colore, la cosa più importante è essere grati e cercare di fare meglio. Il razzismo è complesso e non devo capire ogni sfumatura del feedback per convalidare quel feedback stesso.
Quanto sia importante ciò è stato capito benissimo dalle femministe che hanno dato un nome alla pratica, maschile, di dimenarsi in situazioni simili a quella in cui si è trovato Zazzaroni. Si chiama “Mansplaining” e consiste nello spiegare alle donne, da parte degli uomini, cosa è maschilista e cosa non lo è. Una pratica odiosa e irrispettosa. Zazzaroni dovrebbe capire che se il giocatore che lui ha schiaffato in copertina accanto a quel titolo stupido si è sentito offeso, non è il caso di spiegare perché non doveva offendersi, ma semplicemente è il caso di chiedere scusa.
Come è stato ben spiegato su The Vision da Oiza Q. OBasuyi (a proposito di una pratica razzista come il blackface che in Italia viene sminuita):
L’arroganza degli antirazzisti wannabe risiede nella volontà di spiegare alla minoranza etnica in questione cosa dovrebbe trovare offensivo e cosa no, come si dovrebbe comportare di fronte a certe situazioni o addirittura come dovrebbe sentirsi.
Vale la pena riflettere anche su quanto la stessa autrice racconta in un altro articolo, ovvero che:
negli Stati Uniti, benché il razzismo istituzionale ed efferato continui a esistere c’è ormai una sensibilità diversa – raggiunta e costruita anche grazie a una ricca letteratura afroamericana che ha creato le basi per un’analisi approfondita dei vari livelli di razzismo e che ha portato a una forte presa di coscienza del fatto che anche le azioni apparentemente più superficiali possono nascondere pesanti discriminazioni.
Ecco, di questa presa di coscienza, in Italia, non c’è ancora traccia. Per limitarci al mondo del calcio, siamo ancora ai cori razzisti giustificati dagli ultras e dalle società come “innocue provocazioni” e assimilate agli sfottò, siamo alle dichiarazioni allucinanti rese solo qualche anno fa dall’allora presidente della Figc Tavecchio che disse:
“L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che ‘Opti Poba’ è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”.
e che qualche mese dopo si espresse in questo modo:
(Parlando della sede della Lega Nazionale Dilettanti) “è stata comprata da quell'”ebreaccio” di Anticoli. “Non ho niente contro gli ebrei, ma meglio tenerli a bada”, dice ancora. E poi, riferendosi ad un ex dirigente della Federazione: “Ma è vero che è omosessuale? Io non ho nulla contro, però teneteli lontani da me. Io sono normalissimo”
Ora, è del tutto evidente che esiste un gigantesco problema di razzismo nel calcio italiano. Di questo problema hanno cominciato a farsi carico (dopo che Ancelotti e Koulibaly hanno sollevato la questione) alcune squadre, dimostratesi più sensibili di altre, almeno al livello della comunicazione social.
In questo contesto, il titolo del Corriere dello sport è uno scivolone in sé e rappresenta una vera e propria tragedia per come è stato gestito. Se si è costretti, come ha fatto Lukaku, a dover spiegare perché è discriminatorio un titolo che fa riferimento al colore della pelle, vuol dire che stiamo, come si dice a Napoli, inguaiati. Se chi ha pubblicato quella prima pagina, invece di chiedere scusa, rivendica le proprie intenzioni, vuol dire che non si ha ancora la minima percezione di cosa significhi discriminare.
Un titolo con un gioco di parole sul colore bianco, riferito ad esempio a Cristiano Ronaldo, non solo non è stato mai utilizzato, ma non verrebbe nemmeno capito. Immaginiamo una sfida Inter – Juventus sotto Natale e il Corriere dello sport che titola “Bianco Natal” con la foto di Ronaldo e Handanovic. Nessuno capirebbe il nesso. E questo, in sintesi, è il razzismo.