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Più che il modulo potè la capacità di adattamento: i casi di Britos, Insigne e Hamsik

Più che il modulo potè la capacità di adattamento: i casi di Britos, Insigne e Hamsik

“Il collettivo deve crescere”.

Nel calcio non esiste una frase passepartout più efficace di questa: va bene su tutto ed apre le porte di qualunque conversazione. Spesso, preoccupato della velocità alla quale la squadra sembra maturare ed avvicinarsi ai propri obiettivi, il cuore del tifoso perde di vista quali siano gli strumenti a disposizione dell’allenatore per innescare e controllare questa crescita, e a quale prezzo tali strumenti possano e vengano utilizzati nell’arco di una stagione.

Probabilmente un qualunque manager responsabile di un gruppo comunque largo di persone, che lavorino assieme per l’ottenimento di un obiettivo condiviso, potrebbe dirci che la crescita di un team corrisponde all’aumento del livello di performance (in termini di efficienza, equilibrio, cooperazione) da esso offerto. E potrebbe raccontarci che uno dei metodi solitamente utilizzati per guidare questa crescita, nelle dinamiche di un gruppo di lavoro, è l’individuazione – ed il successivo superamento – di quella che sovente si indica come comfort zone di ciascun elemento del gruppo.

La comfort zone è lo spazio mentale – e fisico – in cui diremmo che una persona, un professionista, si trovi ad operare a proprio agio. In questa condizione la persona minimizza i propri stati di ansia – si sente fiducioso e non vulnerabile, deve affrontare poche incertezze perché conosce l’ambiente in cui si muove, sa di godere della fiducia dei colleghi con i quali condivide le proprie attività, è convinto di avere pieno controllo di tutto quanto è essenziale al proprio successo. Paradossalmente, questo stato comportamentale risulta positivo solo se è transitorio. Esso infatti da una parte garantisce un livello di performance sufficientemente costante, ma dall’altra esclude qualunque tipo di crescita personale e dunque qualsivoglia miglioramento del livello del gruppo.

Affinché il gruppo cresca, quindi, è necessario studiare e conoscere ciascun elemento di un team, individuandone i potenziali inespressi ed inesplorati, e spingerlo con decisione verso il rischio ed il cambiamento. Verso un’altra zona, che si chiama equivalentemente – e non a caso – performance o learning zone, ovvero lo spazio mentale e fisico nel quale perdiamo l’illusione di avere il presunto controllo di noi stessi, conviviamo con uno stato di maggiore vigilanza, pronta reazione ed anche ansia (quanto basta), ed iniziamo finalmente ad imparare innalzando le nostre capacità. Psicologi ed etnologi notano che il famoso “cambio di passo”, negli animali e dunque anche negli uomini, si osserva quando un individuo inizia a prendere coscienza dei mutamenti circostanti cui deve attivamente lavorare per adattarsi. Quando, in soldoni, ha anche un po’ di paura di cambiare.

Nel calcio, ovviamente, a tirare le fila ed a facilitare questa evoluzione è preposto l’allenatore. Il cui delicato compito è, prima ancora di ascoltare ed osservare il calciatore per analizzarne le potenzialità, quello delicatissimo di parlare con lui per trovare un linguaggio comune che gliele evidenzi e gliele spieghi, guadagnando così la fiducia dell’atleta; perché nessun essere umano esce da uno stato di agio di propria spontanea volontà, sui proprio piedi e dalla porta di ingresso, ma ha sempre bisogno di una buona dose di spinta esterna che lo getti nelle braccia di un rischio che egli, razionalmente, non vuole correre. L’atleta dovrà fidarsi della saggezza dell’allenatore quando lo spinge nella terra inesplorata del domani, ma dovrà ancora di più fidarsi del fatto che egli saprà individuare il limite di questa terra e trattenerlo per il bavero se necessario, perché il calciatore non valichi la frontiera e finisca nella danger zone in cui, terrorizzato dalla paura di non farcela, ogni insegnamento è vano ed ogni apprendimento impossibile. Un default mentale che può condurre, rapidamente, al fallimento.

Questo è, in breve, il motivo per cui esistono oggi calciatori di alto profilo che, per la prima volta e per loro stessa ammissione, prendono volentieri in considerazione la possibilità di giocare nel Napoli. Perché si fidano della mano di Benitez, cioè di un allenatore che li spingerà oltre i limiti che essi attualmente sentono di avere, ma saprà anche insegnar loro la pazienza quando sarà necessario.

A mio avviso, ci sono tre calciatori del Napoli che raccontano altrettante storie interessanti, a riguardo.

Il primo è Miguel Britos. Nessuna dinamica collettiva in un team si può innescare se non esiste almeno un uomo coraggioso che decida di mettersi singolarmente in discussione. E questo quasi sempre avviene non per scelta ma perché ad imporlo è la Necessità – quella con la maiuscola, la divinità che alcuni tra i Greci dicevano avesse generato il mondo assieme al Tempo. Probabilmente, in tal senso nessuno ha rischiato sinora più di quanto abbia fatto il difensore uruguagio, re-inventato laterale basso da Benitez in occasione della madre di tutte le partite contro il Bilbao di inizio stagione. Oltre a far presagire la difficoltà iniziale dell’annata calcistica azzurra, l’incontro è ingenerosamente valso al giocatore il mutamento del proprio cognome in Brivitos. Ingenerosamente, perché, se da una parte è evidente che i piedi felpati non li ha ricevuti per grazia divina, dall’altra ha mostrato una volontà quasi epica di misurarsi con moltissimi suoi fantasmi personali – l’imprecisione, la disattenzione, la non sufficiente esperienza. E lo ha fatto, per spirito di gruppo, affrontando enormi rischi personali, in una partita chiave. Il leader di un team, quale è Benitez, è sempre alla ricerca di chi dia un esempio nel cambiamento e nella duttilità, ed la condotta di Britos ha probabilmente spalancato le porte a molti altri comportamenti virtuosi nella squadra.

Uno degli atleti che probabilmente ha tratto beneficio da questo esempio è il secondo della lista, Lorenzo Insigne. Anche il calciatore napoletano ha vissuto la sua serata più drammatica nella medesima partita. In quella occasione, i fischi assordanti del San Paolo ad accompagnarne l’uscita erano la mano che idealmente ha tenuto per lungo tempo Insigne bloccato nella sua comfort zone. Se c’è infatti una schiera di persone che ha tentato in tutti i modi di strappare Insigne al demone del cambiamento, questa è l’ideale curva dei tifosi che per molto tempo non gli hanno perdonato niente. Benitez non ha mai assecondato la piazza in questo senso – neppure quando a fare l’occhiolino c’era Zeman – ma ha protetto il lavoro di Insigne, perché quel lavoro andava nella direzione del mutamento delle proprie caratteristiche. L’Insigne trasformato che abbiamo visto contro Roma e Fiorentina, prima dello sfortunato infortunio, è un professionista strutturalmente diverso, che ha completamente riadattato i movimenti, lo stile di gioco, la ricerca dell’intesa. Quel giocatore, in piena fiducia, è figlio della perspicacia tattica dell’allenatore, che non lo ha sostituito in casa contro il Torino quando, dopo un avvio di gara complicatissimo, Insigne si era trovato in piena bufera interiore, sulla vertigine della sfiducia e del crollo, che un cambio avrebbe definitivamente e disastrosamente trasformato in crisi. Insigne si è fidato del suo allenatore, e l’allenatore ha confidato nella learning zone del suo calciatore.

Ad aver inciampato in questo percorso di mutazione calcistica è forse l’ultimo esempio, quello di Marek Hamsik. Per il capitano azzurro si sono sprecati fiumi di inchiostro, quasi sempre per indicare nell’ormai celebre modulo di Benitez il male primigenio alla base di questa strana sindrome di cui lo slovacco sarebbe affetto. Ma, dopo aver dimostrato con tutti i mezzi tecnologici ed oggettivi che ciò non è poi così vero, potremmo azzardare che sia invece la sua naturale resistenza al cambiamento la vera palla al piede del giocatore. Negli corso degli anni passati, prima dell’arrivo del tecnico spagnolo, Hamsik si era progressivamente costruito la sua comfort zone. Fatta di meccanismi di gioco ben oleati e a lui noti e di un generale senso di giustissima fiducia e riconoscenza nei suoi confronti. Ma anche di un tasso tecnico dei singoli compagni non così alto e distribuito come nel Napoli attuale, nel quale egli si muove spesso con circospezione. Il nuovo quadrilatero di cui Hamsik è oggi parte ha Higuain, Callejon, Insigne (o Mertens) agli altri vertici. Giocatori di calcio. Veri. Dei quali egli pare a volte sentire il timore prima di apprezzarne la sponda. Quando Benitez parla di Hamsik ribadendo che “lui sa che ha le qualità” non sta facendo altro che spingere l’atleta slovacco fuori dalla sua zona di tranquillità, per abbracciare nuovi rischi. Il punto di domanda, che rimane aperto, è quanto sia grande la performance zone di Hamsik. E la domanda – scabrosa – che si ha un po’ di timore a fare, è se egli non sia già entrato nella sua panic zone. Ma questo intreccio di storie, il racconto epico di questi uomini e della loro apertura o resistenza al mutamento, è proprio la bellezza di questo sport. Che descrive della crescita di un gruppo attraverso quella dei singoli. Ed è, dunque, forse proprio sulle vicende del numero diciassette del Napoli che si potrà misurare la capacità di Benitez di essere un insegnante di calcio, e lo stadio di maturità di Hamsik nel riconoscere le proprie forze ed i propri limiti.

Da Lothar Matthäus a Thierry Henry, infatti, la storia dei grandi campioni è il racconto dei loro adattamenti al gioco, e di come questi adattamenti abbiano plasmato nel tempo le squadre.

Non c’è dunque troppo da preoccuparsi di quale metro quadrato occuperà Gabbiadini domani sul terreno di gioco. Nessun giocatore nasce e muore in una sola, singola, immutabile posizione del campo. Nessun grande giocatore.
Raniero Virgilio

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