Un bell’acquisto, già rimpianto in Germania, eppure descritto seguendo i soliti cliché: si chiama Diego, ama Napoli, il caffè e tutto quel che ci fa arrabbiare quando lo dicono gli altri
Diego Demme non esiste. Diego Demme siamo noi. Trionfalmente tradotto dalla rassegnata stampa come “il colpo del Napoli”, il centrocampista tedesco è il primo acquisto del nuovo – vecchissimo – Napoli popolare. Non il calciatore, il famigerato “vertice basso” che serve a Gattuso. L’uomo Demme, più che altro il personaggio.
Ce lo hanno subito raccontato per luoghi comuni, e noi così lo abbiamo accolto, a casa nostra mentre il ragù “pippea” sul fuoco da una ventina di ore. Lo conoscevamo già, nella sua dimensione più intima. Solo che non lo sapevamo ancora. Ignoravamo come giocasse, ma la sostanza (è forte, nel suo ruolo, grande recuperatore di palloni, una forza atletica al di sopra della media) è arrivata poi. Abbiamo prima imparato che si chiama Diego perché quel terrone emigrato del padre tifava Maradona mentre la mamma lo tradiva innamorandosi di Fabio Cannavaro. Che gli piace il caffè, e quando è passato per Napoli da turista ha mangiato la pizza ammirando il Vesuvio, sul lungomare “meraviglioso”. Che ha letto Saviano, e guardato Gomorra. Scopriremo, presumibilmente alla presentazione, che suona il mandolino, ma è uno scansafatiche un po’ furbetto. Risponderà ai giornalisti gesticolando, da buon commediante. Fischiettando un motivetto neomelodico tra una domanda e l’altra. Quasi tutti i titoli erano sul suo nome: Diego. E se si fosse chiamato Fausto?
Pare già un vecchio amico, pure se non l’abbiamo mai visto. Potremmo averlo nella foto sul comò con gli invitati al matrimonio, accanto a zia Giuseppina, e non ci faremmo caso. Perché Diego – gli diamo del tu, figurarsi – sarà anche un ottimo mediano, il centrocampista che serviva a Gattuso, ma è soprattutto un artificio comunicativo che serve a voltare pagina. All’indietro.
Nella scomposizione delle ambizioni siamo tornati irrilevanti, trafiletti su quella stampa che accusavamo di trascurarci e che ora ci trascura meglio. Eravamo europei un mesetto fa, ora facciamo a stento provincia. E ci piace così. Ci sentiamo più napoletani di prima, se possibile. Il cliché lo ostentiamo con orgoglio, ce ne facciamo platealmente un vanto.
Liberi da Ancelotti, liberi tutti: fini elzeviristi, tattici sagaci, lottatori con “gli occhi della tigre”, non fa differenza. Abbiamo tutti un ruolo in questa storia al ritroso che stiamo cavalcando come se non ci fosse un domani ma solo uno ieri. Un rassicurante ieri che sappiamo maneggiare, senza tirarcela troppo con queste manie di grandezza: siamo ancora in Champions, ma chi se lo ricorda più?
La prima rappresentazione di Demme ha poco a che fare col campo. Non è la qualità del giocatore in discussione, ma la sua eco, la quota sproporzionata di euforia a lui dedicata. Tradisce un ritorno alle origini, una finta umiltà che l’evoluzione degli ultimi anni aveva lasciato alla nostalgia. Anzi, ci eravamo detti che la nostalgia è canaglia. E invece ci ritroviamo a festeggiare l’esplosione di tutti i luoghi comuni in un colpo solo, come i coriandoli sparati ai compleanni, quando si spengono le candeline. Ecco, qua si sta spegnendo un po’ tutto, ma i coriandoli svolazzano, sospesi a mezz’aria illudendoci di non cadere mai a terra.
I tormentoni che prima ci facevano schifo, quando a tramandarli erano gli altri, ora li rivendichiamo con una soddisfazione identitaria un po’ patetica. Ora “difendiamo la città” indossando un abito cucito su misura sulla “napoletanità”. Si chiama così, no? Meglio fare i Pulcinella in proprio, che sentirci tali per imposizione altrui. Autolesionismo, ma suona male. Per cui anche la repulsione per il luogo comune è diventata essa stessa un luogo comune. Non ci eravamo capiti. Facevamo una inutile resistenza all’ovvio: siamo così, ci piace.
Quando Demme s’è presentato a Villa Stuart, sede monogamica delle visite mediche del pallone, ha fatto la trafila del campione tanto atteso: le foto, i curiosi, lui che scende dalla macchina, lui che ci risale. E noi eravamo lì, a ravanare su Wikipedia per capire chi fosse davvero – gol, presenze – questo capitano del Lipsia che Oscar Damiani ignorerà pure ma che in Germania rimpiangono (ed è primo in classifica), propinatoci quasi già pronto a scendere in campo con la Lazio, con una tazzina di caffè in una mano e una zizzona di Battipaglia nell’altra.
Il ridimensionamento mentale sta tutto nell’accettazione del racconto un po’ trash, amplificato dalla riproposizione sistematica di un linguaggio che davamo per sconfitto già ai tempi di Benitez. E invece, c’è l’abbiamo ancora addosso come un tatuaggio romantico, quello della prima cotta.
Con sprezzo del pericolo siamo ancora al Diego uguale Maradona che fa curriculum. Come se i dieci anni appena passati ad arrampicarsi sul grande calcio europeo fossero una sbornia. Uno poi si risveglia con il “colpo di gennaio” camuffato da macchietta, e tocca farsene una ragione: evidentemente questo modo di raccontarci è l’unico sostenibile, al momento. Sexy come una realtà contraffatta, saturata, con i pini di Posillipo ancora in piedi, e non abbattuti dalle motoseghe comunali e le malattie.
Il ragazzo, Diego, ce l’avrebbe persino il dettaglio interessante: gioca alla Playstation così bene che rappresenta(va) il Lipsia pure nella eBundesliga di Fifa20. E invece no. Non ha radici questa curiosa modernità: meglio funiculì funiculà. Dopotutto, Mertens – che ha i numeri di Maradona, lui sì – lo abbiamo amato anche un po’ per la sua irriverenza da scugnizzo. Lo battezziamo Ciro, così è più figlio di questa terra.
Ma la dissimulazione adesso è un format. Siamo quello che ci illudiamo di essere, per raccogliere cuoricini sui social. Arriva Demme – e non Icardi, non James Rodriguez – e finiamo a recitare dai giornali la vita di questo ragazzo, come al karaoke: solo attenti a non stonare, il ritornello è facile. È sempre lo stesso.
E’ un’autorappresentazione, Diego Demme. Poverino. È il filtro che ci siamo scelti, il tono che ci stiamo dando. Falso o falsato, poco importa.