I calciatori, sempre gli stessi, si applaudivano tra di loro dopo qualunque errore, al punto che una decina di minuti di gioco di ogni partita erano dedicati a quest’attività
Era una strana stagione. Del clima non valeva la pena nemmeno parlarne, bastava guardare quel gennaio in faccia, cieli azzurri dall’alba al tramonto, non particolarmente freddo nemmeno al nord, le polveri sottili sopra ogni soglia da settimane, passeggiate pomeridiane che invocavano e ricordavano la primavera. Era quella, tra l’altro, la stagione in cui i calciatori di una nota società sportiva – che aveva sede nella maggiore città dell’Italia del sud, ma era ancora così? – inciampavano di continuo, scivolavano come se niente fosse, perdevano l’equilibrio come se fossero afflitti da una forma acuta di labirintite. Il fenomeno dell’inciampo, naturalmente, si estendeva anche ad altri aspetti del gioco (ma nel caso in questione era ancora possibile chiamarlo così?) con calciatori che avevano perso la propriocezione, nessuno di loro sapeva più né percepire né riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio – perciò nel campo – nemmeno a occhi aperti, figuriamoci a occhi chiusi.
Capitava sovente che calciatori ritenuti forti – quando non fortissimi – commettessero degli sbagli che i commentatori (anche i più scaltri) facevano fatica a definire soltanto ingenuità; quegli errori erano riconducibili, invece, alla perdita di alcune nozioni fondamentali sull’equilibrio, sul senso della posizione e, perché no, alla perdita della memoria. La memoria c’entra sempre, come la matematica, la memoria condiziona ognuno di noi e determina, nostro malgrado, calciatori o meno, il nostro futuro.
Un rapido elenco, per nulla esaustivo, ma significativo, riguardante gli episodi circoscritti al fenomeno.
Il difensore senegalese, considerato, a ragion veduta fino a qualche mese prima, tra i migliori del mondo che inciampa, ruzzola addirittura, in modo maldestro, durante un contropiede di una compagine emiliana. La sua caduta è talmente maldestra da fa pensare che il terreno di gioco sia instabile, che si muova, che apra dei piccoli buchi sotto i suoi tacchetti. La sua caduta è talmente improbabile da procurargli anche un serio infortunio.
Il centrocampista polacco che sembra perdere i sensi, come accadeva alle dame nei romanzi ottocenteschi, si trova per terra, imbambolato, svenuto, perduto. Lui, ricordiamolo, atteso da anni da tutti come la promessa, lui che doveva trasformarsi nel miglior centrocampista europeo, lui, il polacco che cascava in malo modo, generando l’ennesimo contropiede e gol della formazione avversaria.
Il difensore esterno destro, usato di recente, suo malgrado, da centrale. Difensore, ricordiamocelo, che è stato a lungo la rivelazione del campionato. Difensore che, durante un’azione d’attacco, su un normale appoggio all’indietro di un compagno, scivola, perde l’equilibrio, ha le vertigini, un attacco di panico, gli manca l’aria, il terreno di gioco gli sparisce sotto i piedi e va giù. Non fa in tempo a rialzarsi che un attaccante della squadra avversaria ha già attraversato tutto il campo in direzione opposta, fino ad arrivare al tiro, e – guarda caso – al gol.
Il giovane portiere, considerato tra i più forti del campionato, autore di grandi parate, portiere da nazionale, diciamolo senza timore di smentita e infatti in nazionale era. Ma era una strana stagione, perciò su un tiro non particolarmente irresistibile, certo non lento, ma nemmeno fortissimo, privo di qualunque ingannevole effetto, si impapera, piegandosi goffamente su se stesso, come se fosse capitato lì per caso, per la prima volta nella vita.
Il centrale greco, colui che insieme al senegalese di cui sopra, avrebbe dovuto formare la coppia più forte del campionato, e non escludiamo che prima o poi la formerà. Intanto gli capitano cose assurde come la seguente, su un cross nemmeno dei più insidiosi arriva in anticipo, in elegante spaccata, è talmente in anticipo che non spazza in angolo, lui arpiona il pallone ma qualcosa – forse la mistica del momento – gli impedisce di completare l’opera, sicché il movimento ad arpione di trasforma in stop per l’attaccante avversario, che, non trovandosi lì per caso ma per mestiere, segna senza problemi.
Il portiere, l’altro, quello esperto, quello bravo con i piedi, quello che fa partire l’azione dal basso, riceve palla all’indietro, è tutto solo, la controlla, la sposta, si guarda intorno, la sposta un po’ di lato, dando il tempo all’attaccante avversario, in particolare stato di grazia, di avvicinarsi, nemmeno troppo velocemente, di strappargliela dai piedi e di segnare. Cosa pensava il portiere esperto mentre i suoi piedi non sapevano più dove si trovavano? Non ci è dato saperlo.
Era una strana stagione, risparmieremo perciò, anche perché da molti è stato già fatto, il conteggio dei pali colpiti, di volta in volta, dai nostri attaccanti, dai nostri centrocampisti, e così via. Pareva che la squadra di calcio, dai colori azzurri, avesse bisogno quell’anno di alcuni centimetri in più, la porta avrebbe dovuto allargarsi secondo necessità, concedendo alla squadra di appartenenza una quindicina di gol e chissà quanti punti in più.
Era una strana stagione, al punto che se gli attaccanti – sempre meno frequentemente, va detto – capitavano soli davanti al portiere, in preda a chissà quale emozione, che non avevano provato nemmeno negli anni degli esordi, la buttavano fuori, anche di parecchio.
Era una strana stagione, i calciatori, sempre gli stessi, si applaudivano tra di loro dopo qualunque errore, al punto che una decina di minuti di gioco di ogni partita erano dedicati a quell’attività.
Era una strana stagione, quella in cui non avevamo capito niente, si andava in ritiro controvoglia e si interrompeva il ritiro per protesta, si prendevano multe, si protestava, si decideva un altro ritiro, lo si abbandonava dopo poche ore. Si era instabili, si cadeva di continuo, su ogni cosa. Il Napoli precipitava nel vuoto sul quale la città si era sempre retta.
Era una strana stagione, per la prima volta, non si era usata la coppia di versi straordinaria di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”. In quella stagione si poteva usare solo il primo verso, la grazia fulminante non c’era più, bisognava tacere il secondo, perché il soffio a venire, da qualunque lato spirasse il vento, metteva paura.