Le autobiografie dei giocatori o degli allenatori di calcio difficilmente sono libri indimenticabili, spesso sono scritte male e stampate peggio. Ci sono però alcuni personaggi che meritano ugualmente un approfondimento, tra questi Diego Pablo Simeone. Nel suo “El Cholo. Il mio metodo per vincere” (Mondadori), con presentazione di Luis Aragonés, il tecnico dell’Atletico Madrid espone la genesi di quella che alcuni addirittura definiscono una corrente di pensiero nota come cholismo.
Non crediate che si tratti di uno sterile esercizio di autocompiacimento. Nel 2013 il termine cholismo è stato candidato a parola dell’anno dalla Rae (la versione spagnola dell’Accademia della Crusca). È riconosciuto dalla Fundéu (Fundacion dell’Español Urgente, collegata alla Rae). Nelle trasmissioni televisive come Deportes Cuatro si prova a far luce sul fenomeno: “non si conosce la definizione esatta, ma per la Rae è l’idea del Cholo di concepire il calcio e di imprimere il suo carattere di vincitore ai propri giocatori. L’-ismo indica un’attitudine, quella del Cholo ad aizzare la folla con un solo gesto. Il significato è ampio, ma si può riassumere in una filosofia legata al carattere ed alla fiducia in se stessi. In definitiva una serie di massime che l’Atletico ripete come un mantra. Il cholismo è una tendenza.”
Più che una filosofia è una religione con tutti i suoi crismi. Ha i suoi comandamenti, El Clarin nel 2008 ne stilò 10: 1) Il convincimento sopra tutto. 2) Lo sforzo non si negozia. 3) Di fronte alle avversità, pazienza. 4) Le idee tattiche non sono verità assolute. 5) L’interesse collettivo sta sempre sopra quello individuale. 6) Più verticalità, meno elaborazione. 7) Ogni membro della squadra è prezioso. 8) I fronzoli solo al servizio della praticità. 9) Mai rinunciare alla possibilità di vincere. 10) Il tempo di recupero vale tanto quanto i 90 minuti.
Nel passaggio dagli argentini dell’Estudiantes agli spagnoli dell’Atletico Madrid, questa fede non ha risentito dei processi di secolarizzazione che spazzano l’Occidente ma ha saputo sopravvivere riadattandosi in 14 o 12 comandamenti.
Per questo suo cammino, El Pais ha paragonato Simeone a Machado con il suo “Sentiero” o a Kavafis che nel “Viaggio ad Itaca” raccontò di una strada lunga e ricca di avventure, piena di scoperte.
Il cholismo è riuscito a imporsi nella patria del guardiolismo, lì dove il mourinhismo è naufragato. Intervistato dalla FIFA, alla domanda “La Spagna per molto tempo si è divisa sullo stile di Guardiola e di Mourinho, esiste ora un cholismo?” rispose: “Abbiamo una chiara identità di gioco, questo sì. Dico sempre che le squadre che hanno trasmesso al meglio le mie idee sono state l’Estudiantes e l’Atletico Madrid. Non avrei il coraggio di parlare di “cholismo”, però le mie squadre giocano in un determinato modo.”
È un sistema basato sulla compattezza difensiva, rapido contropiede e verticalizzazioni: “Il possesso palla non m’interessa, affatto. Ciò che mi interessa è vincere. Il possesso è una storia che ha venduto molto bene. È un modo per vincere, ma non l’unico. Uno sceglie quello che vuole. Agli allenatori piace, a me non tanto. Credo che il possesso serva per far sistemare la squadra rivale, ma se è per far male mi piace. È come la differenza tra i film d’azione e d’amore, a me piacciono quelli d’azione.”
L’intensità è la cifra stilistica dell’Atletico di Simeone, non sanno giocare in un’altra maniera. A volte però questo vigore ha comportato accuse di gioco violento, che prontamente il Cholo ha rispedito al mittente: non siamo violenti, ma intensi. In difesa del tecnico argentino si è schierato Fabio Capello: “Il calcio non è uno sport per femminucce. L’Atletico è una squadra che ha un valore aggiunto, non come il Madrid e il Barça. Una squadra che sa soffrire, con una gran voglia di vincere. Non è una squadra violenta, ma mette sempre la gamba quando interviene. È un calcio fisico.” Un concetto non dissimile è stato espresso da Carlo Ancelotti, allenatore del Real Madrid: “l’Atletico non è una squadra violenta, il calcio è uno sport per uomini. Abbiamo solo due stili differenti.”
La forza di Simeone va ben oltre l’aspetto tecnico, si fonda sulla leadership ed è un qualcosa che non si sceglie: “Non sei tu a decidere che vuoi essere il leader, è il gruppo stesso che ti segue perché hai una serie di caratteristiche che ti differenziano dagli altri. È il mio caso. Io non cerco la leadership, so di averla. Il carisma non si acquista con l’allenamento. È naturale, c’è e basta”.
Una leadership che non si esercita in maniera autoreferenziale ma si dispiega su tutti i giocatori. Il lavoro più difficile per Simeone è quello di far sentire a ciascuno del gruppo che è un tassello importante all’interno della squadra, fare in modo che tutti abbiano lo stesso atteggiamento, dal presidente al magazziniere. Le vittorie arrivano non solo perché l’allenatore sa toccare i tasti giusti, ma anche perché il gruppo è compatto verso uno stesso obiettivo. Per questo motivo non è corretto parlare di “Cholodependencia” a proposito dei successi dell’Atletico Madrid. Non c’è spazio per l’individualismo, non è qualcosa di personale, è il gruppo la chiave del cholismo.
È una spirale che per funzionare deve coinvolgere tutti: da ottimi gregari come Tiago (“Simeone per noi è come Dio. Non dovrei dirlo con lui di fronte, ma se ci chiede di buttarci giù da un ponte, lo facciamo”) fino a colui che è il fulcro del gioco di Simeone, Arda Turan. Un centrocampista dotato di classe cristallina, un po’ pazzo, a capo di un filone estetico-ideologico conosciuto come ardaturanismo. Anche lui devoto alla causa: “La nostra ricetta è: lavoro, lavoro e ancora lavoro. Per noi ogni partita è una finale, dobbiamo concentrarci su ogni avversario. Stando uniti possiamo competere con tutti.”
Il merito del Cholo è stato quello di tirare fuori il meglio da ogni singolo giocatore, convertire l’Atletico in una specie di prolungamento personale. Simeone non solo ha convinto dialetticamente i giocatori che erano in grado di competere ad armi pari con le stelle del Real e del Barça, ma ha dimostrato che con la retorica del sacrificio e dello sforzo si ottenevano successi. Perché, come amava ripetere Nelson Vivas, vice del Cholo ai tempi dell’Estudiantes: perfino nel dizionario la parola sforzo viene prima di successo.
Diego Pablo Simeone da quando è diventato allenatore dell’Atletico Madrid, nel dicembre 2011, halavorato giorno dopo giorno per mettere a tacere gli odiati rivali del Real che chiamavano i colchoneros con il nomignolo “Patetico de Madrid” e restituire l’orgoglio all’umile popolo rojiblancos.
Una fierezza che con l’arrivo di Simeone si è rafforzata ed è arrivata fino in Argentina: “Quando ero in campagna, la gente mi ha detto di aver visto le partite. Si sono identificati con lo sforzo, l’impegno per affrontare le sfide a un livello più difficile. Li c’è stata la sensazione che l’Atletico sembrasse il Napoli di Maradona (Quando era al Vélez, Simeone si alzava presto per fare colazione con i compagni e ritornava velocemente in camera per vedere giocare Diego) che si riscattava dopo tante umiliazioni subite da Inter, Milan e Juventus. Il popolo normalmente prende come riferimento quella gente che ha più bisogno di lottare per il successo. Noi siamo una squadra del popolo ed per questo che la gente si rivolge a noi.”
È un rapporto viscerale quello tra la gente e Simeone, che si rinnova ogni settimana nel tempio del Vicente Calderon. È qui che che si manifesta il concetto più profondo di passione, dove è lecito sognare: chi non capisce questo è difficile che vinca. La gente non protesta per una sconfitta ma per negligenza e mancanza di ambizione.
Il Cholo ha bisogno al tal punto dei suoi fedeli da preferire la Liga alla Coppa dei Campioni: “Ovviamente la Champions è molto bella e ha una grande storia internazionale ma per me vincere il campionato è straordinario. Perché? Perché i tifosi lo vivono tutti i giorni. Da domenica a domenica. Vincere un campionato non è lo stesso che vincere una coppa.”
Simeone è abbondantemente ricambiato. Per i tifosi il cholismo è un modo di pensare, una forma di vita. È un qualcosa ti cambia, è lavoro, è umiltà, è “partido a partido.”.
In questo racconto non c’è un percorso predefinito. Come scriveva Machado “caminante son tus huellas el camino y nada mas / caminante, no hay camino se hace camino al andar”. Un tragitto lungo iniziato con la conquista dell’Europa League contro El Loco Bielsa, proseguito con la Supercoppa europea e culminato nella vittoria in Coppa del Re, al Bernabeu, ai danni del Real Madrid. È una storia di successo, ma è nel 2014 che il Cholo ha sfiorato la gloria eterna. La sconfitta in Supercoppa conto il Barcellona (in realtà due pareggi) non ha scalfito le certezze del tecnico argentino. Nonostante le notevoli disparità economiche con Real e Barcellona (“c’è una piccola differenza di 400 milioni con i blaugrana”, disse) è riuscito a spezzare il bipolarismo del calcio spagnolo, diventando un avversario scomodo per tutti. Ha vinto il campionato all’ultima giornata sul campo del Barcellona dopo aver perso in venti minuti per infortunio sia Diego Costa sia Arda Turan. Un’impresa titanica, frutto delle immense capacità motivazionali del Cholo. Il raffinato pubblico del Camp Nou, nonostante la delusione per la sconfitta, si alzò in piedi ad applaudire Simeone. ”Questo applauso è stato il regalo più bello. Vincere la Liga è fantastico ma ricevere gli applausi da tifosi tanto competenti è il massimo. Questo è il successo di un’idea che portiamo avanti col nostro stile, è per questo che quando i tifosi del Barcellona ci hanno tributato quell’applauso ho capito che era per un’idea non per aver conquistato la Liga.”
Simeone, nonostante un organico ridotto e spesso falcidiato dagli infortuni, è riuscito a essere competitivo anche in Champions League. Dopo aver superato agevolmente i gironi e aver eliminato il Milan agli ottavi, ha incrociato il Barcellona ai quarti. L’approccio del Cholo alle finali o agli scontri ad eliminazione diretta è chiaro: “So che i miei giocatori le giocano bene, perché è morire, i miei non vanno a morire, non temono la morte”. Los guerreros del Cholo passarono il turno perché “ancora una volta, come nelle grandi battaglie e nelle guerre della storia, non vince il migliore, ma quello che è strategicamente più convinto di ciò che si doveva fare. Oggi eravamo convinti di quello che stavamo facendo. Possiamo invidiarli dal punto di visto economico, non da quello competitivo”. In semifinale demolì il bus di Mourinho, a fine partita ringraziò le mamme dei suoi giocatori per avergli dato due coglioni enormi. La finale di Lisbona contro i rivali di sempre del Real Madrid fu una partita da affrontare con el cuchillo entre lo dientes. In palio non c’era solo la Coppa con l’ossessione del Real per la decima ma la supremazia cittadina. Dopo essere passati in vantaggio, l’Atleti fu raggiunto a due minuti dalla fine dal colpo di testa di Sergio Ramos. Il Cholo sembrò non accusare il colpo, subito provò ad incitare la squadra aizzando il pubblico ma ormai i colchoneros erano in riserva dopo una stagione massacrante e nei supplementari la qualità del Real prese il sopravvento.
Al termine dei 120 minuti Simeone, dopo le cadute di stile di Cristiano Ronaldo e Varane, uscì dal campo comunque a testa alta, al termine di una stagione straordinaria, non necessariamente irripetibile: porquè si se cree y se trabaja se puede.
Alfonso Noël Angrisani