Ogni volta che Aurelio De Laurentiis appare sulla scena, si porta dietro il mondo del cinema, e non perché fa il produttore, ma per come agisce: azioni e parole, che sembrano scritte da Rodolfo Sonego. Dondola sempre tra un Vittorio De Sica e un Alberto Sordi con l’aggiunta del tempo presente. Ha la camicia sbottonata come il secondo e la guasconeria del primo quando approccia una donna, e tutto, proprio ogni singolo fatto o respiro deve passare attraverso la sua biografia; non esiste un mondo non filtrato dal suo Io, non attraversato dalla sua esperienza. È proprio come gli artisti ambulanti con la valigia che portano il proprio spettacolo ovunque a prescindere dallo sfondo, o i bambini con i giocattoli, è un apparato che si trascina senza peso, che appare appena parla. Lui attacca, il mondo appare. È anche un uomo che ha un istinto enorme, percepisce l’atmosfera da strada, come raccontavano Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, non ha paura perché si conosce, non mostra timore perché ne ha viste tante. L’irruzione in sala stampa, con l’annuncio del ritiro, è una trovata alla “House of Cards”, un colpo di reni da fare invidia a Pepe Reina, mentre i tifosi urlano contro i calciatori, mentre l’allenatore ha trasformato il suo contratto nelle primarie del Pd.
Il mondo di De Laurentiis comincia da sé e gli gira intorno, senza muoversi, è quello che i suoi occhi vedono e i suoi piedi misurano, basta guardare i suoi tre following su Twitter: imprese e interessi, che partono da lui e da lui ritornano; persino uno come Alessandro Baricco si è spinto oltre, seguendo Valentino Rossi e Sandro Veronesi. De Laurentiis, è un padrone che non ha perso lo stupore di seguire il flusso dei suoi soldi, controlla tutto: non tanto per paura di perderlo ma perché ci vede il cammino della sua vita, si specchia ogni volta che capisce a chi sta pagando una fattura; è oltre Enzo Ferrari in quanto a ossessione della propria “roba”, e quando pensa in grande – come nella conferenza che annunciava l’ingaggio di Benitez: Messico, Americhe e nuvole, campionati, squadre e marketing – ancora gli luccicano gli occhi. Poi, gli succede di credere alle proprie bugie, come Berlusconi, e lì, si crea un corto circuito che richiede colpi d’istinto come quello dell’altra sera. Deve fare dei blitz contro se stesso.
Ci sono due De Laurentiis, uno che si vuole staccare da sé e l’altro che lo tiene ammanettato a sé, il risultato è un pareggio di bilancio e di sogni. È capace di indossare un giaccone di taglio e colore militare su un doppio petto blu, di infilarsi le mani sotto la camicia mentre parla e allo stesso tempo mostrarsi come un tiranno sentimentale, un generale che annuncia l’attacco, rimprovera le truppe ma senza essere impettito, ve lo immaginate De Gaulle con la camicia aperta sul petto infilare una mano a toccarsi la spalla? È un ribaltatore di piazze e frittate, un imbastitore di sogni e speranze, è uno che parla alle masse e lo sa fare ma è tradito dalla lingua, la sua non conosce che il singolare, in pratica è un nodo, si è annodato al Napoli, se l’è annesso e ora – pur riconoscendo città e squadra – lo considera suo, oltre il possesso del tifo. Come considera suoi i calciatori, suoi gli allenatori, e sta lavorando per fare suo lo stadio. Nulla di male, anzi, un percorso da padrone che però è fuori dal tempo: mentre il mondo vive in concessione, De Laurentiis insegue le annessioni. Per questo è scomposto, come lo è Putin, come lo sono tutti quelli che vorrebbero possedere ciò che amano, al punto di uscire dal mondo, da sembrare dei pazzi. Mentre chi gli sta intorno prova a mostrar loro che c’è un modo diverso, quelli li annoverano come nemici, anzi, il bisogno di nemici rende epiche le loro difese, coraggiose le loro traversate, fino a quando non precipitano nella realtà di una sconfitta, non inciampano nel vizio umanissimo di un uomo, nell’errore di un calcolo o modulo, nella cattiva caduta di un calciatore. Allora scoprono la fragilità, vedono il limite, ma non si fermano, no, provano di nuovo, riscrivono il sogno, riprogettano il viaggio, ripromettono l’impresa, solo con meno dolcezza, con una voce incrinata da una maggiore cattiveria, con meno speranza, però, avendo fatto la conoscenza della caduta. E, vanno avanti così, proprio come i bambini che si trascinano i giochi dietro, in ogni casa, convinti che tutto abbia un seguito.
Marco Ciriello