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Il calcio fluido di Benitez, allenatore venuto dal futuro che si fida della scienza ma sottovaluta la psiche

Il calcio fluido di Benitez, allenatore venuto dal futuro che si fida della scienza ma sottovaluta la psiche

Sono ormai un paio di anni che ho trovato, su queste pagine, una cultura calcistica vicinissima alla mia, e ne ho di conseguenza condiviso tutte le battaglie (tranne quella sulla discriminazione territoriale… ma è un altro post). Sono quindi, ovviamente, un legionario della battaglia principale del Napolista, il rafaelismo. Mi sento vicino al discorso rafaelita sulla cultura sportiva, un discorso impegnato a promuovere una cultura sportiva di stampo americano (neanche anglosassone ma prettamente americana), dove ha enorme peso la sconfitta. La concezione del calcio di Benitez, così come quella di altri prima di lui, ruota attorno a quel filo invisibile e inscindibile che tenta di coniugare spettacolo e cultura. Non sarebbe utile stabilire una gerarchia precisa tra i due poli, ma è utile tenere in mente che la cultura sportiva predicata da Rafa, e da chi la vede come lui – come ribadito ormai ogni settimana da Max Gallo – fa della sconfitta una parte inseparabile del gioco, una normale componente, dovuta, in tutte le sue sfaccettature casuali, a variabili che non possono essere sempre sotto il controllo dell’allenatore, dei giocatori, e della squadra stessa; Rafa sembra predicare una variante meno ideologica e millenarista del “Il risultato è casuale, la prestazione no”, con il quale il maestro boemo ci ha accompagnato per bellissime partite (mai stagioni, purtroppo). Se Zeman nel suo nichilismo ne fa un discorso quasi ontologico, Benitez riesce a difenderlo e a proporlo quale fine politico, retorico, e culturale, e grazie alla sua natura manageriale e mediatica (e non da scacchista sovietico come ZZ) può perseguirlo senza venirne sopraffatto. Dopo questa zoppa premessa, in questo post volevo evidenziare tre interessanti corollari che nascono dalla cultura rafaelita, e di come questi corollari disegnino un Benitez come allenatore del futuro, e più vicino, appunto, alla figura di un manager NBA (dove la lega in qualche modo ricompensa la sconfitta nel mercato successivo) che non a un allenatore di calcio. I tre corollari figli della cultura rafaelita sono: 1) La ricerca dello spettacolo attraverso la fluidità, e non la bellezza 2) Il turn-over scientifico 3) Lo sviluppo analitico del gioco.

Benitez, a differenza della grande scuola spagnola, non ritiene bello il dominio totale dell’avversario, ritiene bella la fluidità del gioco, della partita nel suo insieme (e non di una sola squadra); è la fluidità che ricerca schierandosi con un baricentro più basso della classica squadra che vuole proporre gioco, un baricentro basso che gli permette di trovare spazio per giocare, non per ripartire, attraverso una verticalità mai esasperata che passa per un primo consolidamento del possesso senza mai eccedere nel contropiede, spaventata ricerca del risultato. Sintetizzando, per avere il pallino del gioco le squadre di Benitez hanno un baricentro stranamente basso. Queste caratteristiche sono riconducibili alla presenza di soli 2 centrocampisti che, a differenza della comune interpretazione del 4-2-3-1 usato per spostare in avanti il punto medio di recupero palla (con 4 giocatori perlomeno a portare il primo pressing), viene invece utilizzato da Benitez per rendere più fluido il gioco saltando una linea di passaggio a centrocampo (non a caso Xabi Alonso con la sua velocità di pensiero, la sua definizione di passaggio verticale, senza alcun giro sulla palla, e il suo dribbling mediocre, può essere visto come l’incarnazione di questa concezione). Benitez va controcorrente perché svuota il centrocampo in fase di possesso, contro il dogma del tika taka della superiorità in zona palla, riuscendo a creare (quando si affronta l’avversario giusto) partite che ricordano il basket, per il suo contrappunto di azioni di attacco e difesa, con pochi momenti di transizione e di riflessione (la superiorità del Napoli in Italia per tiri, e quindi per azioni concluse, lo conferma). Va detto che questo tipo di calcio cestistico è la tipologia di calcio verso cui tende la Premier League, e che quello che sarà il campionato più seguito del mondo nel 2030 deve molto a Benitez, Ferguson, Wenger e Mourinho che l’hanno plasmato negli anni ’00 in modo decisivo; Benitez rispetto agli altri tre ne rappresenta l’avanguardia più sperimentale (con pochi punti di distacco su Wenger, esteta classico).

Il secondo punto è dove si manifesta la distanza massima tra Benitez e gli altri allenatori che hanno fatto grande la Premier. La scientificità del turnover di Benitez è assoluta, si basa solo su test fisici, preparazione atletica, e parametri fisio-metrici. Se, ovviamente, queste citate sono le categorie usate da tutti, la differenza di Rafa si sostanzia nell’ignorare completamente qualsiasi altra categoria e considerazione, di tipo psicologico e nervoso, che sia personale o ambientale. Mentre gli allenatori moderni valutano ogni sfumatura psicologica, e per far fronte a imprevisti ambientali si trovano a riconsiderare il minutaggio per affidarsi ai giocatori più carismatici e affidabili, facendo saltare tutta la pianificazione dei cicli di preparazione atletica, Benitez mantiene un minutaggio preciso per i giocatori, e non lo fa per puro idealismo, ma per arrivare con energie psicofisiche stabilite con rigore scientifico nella partite decisive delle tre competizioni. Vi è un affidarsi a modelli quantitativi, il delegare la responsabilità fisica dei giocatori a software e algoritmi che necessita di un’enorme serenità e fiducia nel proprio lavoro (oltre che negli strumenti usati). Valutare la stagione come totalità dei chilometri percorsi, dei cambi di direzione effettuati, e dei recuperi portati a termine, stride moltissimo sia rispetto alla provincialità italiana dove il campionato è il limite dell’universo e oltre si cade giù – nonostante tutti i problemi che tale mentalità ha creato, ovvero il crollo nel ranking europeo e quindi il crollo economico – sia rispetto alla maniacale gestione nervosa dello spogliatoio di Mourinho e prodromi. Benitez sembra più simile a Popovich che non a Mou. Inutile sottolineare come anche questo metodo di lavoro sia molto più orientato a una gestione sapiente delle sconfitte, parte ineliminabile del percorso di una squadra. Bisogna scegliere benissimo le proprie sconfitte in una stagione da più di 50 partite; chiaramente tale gestione delle sconfitte (quando non addirittura scelta) è il punto più controverso da far digerire ai tifosi.

Infine il terzo punto. Benitez ha elevato l’analisi e la proposta di gioco dove pochi altri sono arrivati. Lo studio, e l’uso, come situazione di gioco, delle rimesse laterali (quella esaltante al 94’ contro l’Inter) e dei rilanci del portiere (il gol con la Fiorentina in tre passaggi) hanno ampliato il playbook calcistico. Se è vero che in nome della fluidità le squadre di Benitez segnano meno, e subiscono di più, su calcio piazzato della media delle squadre europee (per dare spazio a agilità e tecnica), è in nome della stessa ricerca di fluidità come spettacolo che momenti di respiro e riposizionamento come le rimesse laterali e i rilanci del portiere sono diventati attacchi letali, che richiedono un ulteriore sforzo cognitivo da parte dei giocatori, nell’interpretazione di nuove situazioni cui non erano abituati. Ovviamente rimanendo nello stesso solco si può anche ipotizzare che il sovraccarico di pressioni analitiche e l’indifferenza verso la gestione nervosa abbia comportato alcune delle troppe disattenzioni che hanno colpito il Napoli in queste stagioni. In generale però rendere i rilanci del portiere e le rimesse laterali momenti significativi del gioco ha aumentato il numero di eventi, e di azioni all’interno di una partita, e quindi lo spettacolo.

I punti trattati raccontano Benitez come un allenatore venuto dal futuro, che per lo sperimentalismo con cui gestisce le sue squadre meriterebbe ben altro risalto sia mediatico, sia tra gli addetti ai lavori, fino a raggiungere quasi uno status profetico. Invece, valutando con serenità la reputazione di Benitez, la definizione più usata per descriverlo è “un maestro di calcio”, espressione svogliata usata per descrivere i “vecchi” allenatori insegnanti più che leader. Se le considerazioni fin qui riportate hanno qualche base, sarebbe più corretto parlare di Benitez come insegnante, ma insegnante di un nuovo “tipo” di risultato. Probabilmente il giudizio su Rafa nasce e risiede nella grande differenza tra gli sport americani e il calcio, che Benitez – per la fortuna di noi rafaeliti – fa finta di non vedere, ovvero il salary cap, il monte ingaggi. Senza questo dispositivo la cultura del risultato risulterà sempre preponderante, poiché il risultato senza un limite condiviso al monte ingaggi mantiene una sua natura puramente economica, per quanto ci si possa raccontare che il pallone è rotondo. Si potrebbe perdere a Empoli senza processi se l’Empoli spendesse per gli ingaggi quanto il Napoli, in tal caso la sconfitta sarebbe giustificata e contemplata. Al contrario, in un sistema in cui il Napoli può spendere 70 milioni di ingaggio e l’Empoli 10, la sconfitta del primo non può essere accettata. È questa dinamica che crea tanti problemi al Rafa descritto nel punto 2, in un mondo senza salary cap la gestione psicologica dell’ambiente rimane componente essenziale e preponderante. Comunque se così fosse, o se fosse così anche solo in parte, noi rafaeliti per preservare e non distruggere la cultura di Benitez, non potremmo fare altro che prepararci a condurre un’altra battaglia, ancora più difficile: l’introduzione del salary cap nel calcio europeo.
Federico Velardi

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