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Imparare a perdere per tornare a vincere. Le lezioni di Velasco e di Benitez

Imparare a perdere per tornare a vincere. Le lezioni di Velasco e di Benitez

“Quando abbiamo perso non abbiamo detto: è colpa dell’arbitro, siamo sfortunati, la Federazione non ci ha appoggiato, è colpa di un giocatore, dell’allenatore, di quel dirigente. Abbiamo detto: l’avversario è stato più forte di noi, punto e basta. Noi abbiamo costruito la mentalità della squadra combattendo quella che chiamiamo la cultura degli alibi. Che cos’è un alibi? È dire che non posso fare questo non perché non ci riesca, ma perché c’è qualcosa che lo impedisce e che io non posso modificare. Qualcosa di più grande di me”.

Queste parole le ha pronunciate, un po’ di tempo fa, uno degli allenatori più vincenti di sempre, Julio Velasco. Parlava della nazionale italiana di pallavolo, una squadra che ha vinto tanto, ma che ha anche perso partite importanti.

Dopo la sconfitta con il Dnipro un Benitez rabbuiato ha detto qualcosa di molto simile: «non dobbiamo prendercela con gli arbitri, dovevamo fare solo gol. E basta. Loro sono in finale e noi non siamo in finale». Ed ha aggiunto: «Sono dispiaciuto: abbiamo meritato di più, ma potevamo fare anche un po’ meglio».

Ecco, io ripartirei da qui, dalla possibilità di fare un po’ meglio.

Il Napoli, l’ho detto tante volte, è una squadra di seconda fascia del campionato italiano. Seconda fascia per meriti sportivi (sono tantissime le squadre italiane che hanno vinto più di noi), per fatturato, per tifosi, per strutture, per organizzazione. È una squadra, però, che sta provando a entrare nella prima fascia. Da qualche anno a questa parte risiede stabilmente nelle prime posizioni in classifica, ha vinto due coppe italia e una supercoppa, è arrivata a una importante semifinale europea.

Come si fa il salto? Non è una cosa che succede dall’oggi al domani. Chi parla di un attaccante piuttosto che un altro, di una sostituzione da fare 10 minuti prima anziché 10 minuti dopo, pensa alla singola partita. Lecito, per carità. Giocatori e allenatori sono pagati fior di quattrini, ci sta che si prendano le critiche dopo una sconfitta. Ma per diventare squadra di prima fascia io mi concentrerei su quello che c’è da imparare dalla sconfitta con il Dnipro che, aggiungo, non è poi così diversa da quella con la Lazio e da parecchie partite importanti perse in campionato.

Il Napoli è una squadra abbastanza giovane, costruita per durare ed essere migliorata nel tempo. Giocano nel Napoli quelli che, con tutta probabilità, saranno l’ossatura della nazionale italiana negli anni a venire, Insigne e Gabbiadini. Hanno ancora parecchi anni ad alti livelli Higuain e Mertens. Hamsik non è certamente vecchio. Si tratta di una squadra che può essere tranquillamente migliorata, specialmente a centrocampo e in porta. 

Il rischio, però, è quello di buttare tutto a mare perché si sono falliti gli obiettivi di quest’anno.

Alla luce della sconfitta di ieri sera assumono ancora più importanza le parole di Benitez di qualche settimana fa. Le strutture, il settore giovanile, il business plan. Sono quelli gli elementi che fanno fare il salto di qualità. È con un progetto credibile, sostenibile e ben gestito che si entra nella elite del calcio, non con una vittoria in semifinale. La storia del calcio è piena di squadre che hanno fatto l’impresa, che hanno vinto “la partita”, che hanno portato a casa un successo… e poi sono sparite dal calcio che conta.

Proprio noi ne siamo l’esempio. Due scudetti, una coppa Uefa, il Dio del Calcio e poi il baratro, la serie b (2 volte), il fallimento.

Certo, se mi avessero chiesto a 12 anni di barattare lo scudetto con un business plan avrei, probabilmente, rincorso l’autore della proposta per tutta Napoli. Ma c’è una differenza tra un ragazzino tifoso del Napoli e chi la squadra la presiede e la gestisce? O no?

De Laurentiis sinora ha fatto cose mirabili. Ma ha fatto anche degli errori. Il Napoli è una società sana ed il suo progetto è stato sostenibile sinora. Bisognerà vedere se è in grado, se ha la volontà e la possibilità di fare il salto, di crescere.

La differenza tra un tifoso e un dirigente, in fondo, è questa. Noi siamo qui a dilaniarci per la sconfitta di ieri ma pronti a tifare nella partita di domani. Il dirigente deve pensare a quello che ha detto Benitez, a come fare, la prossima volta, per “fare un po’ meglio”.
Fabio Avallone

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