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Pietro, ingegnere trapiantato a Chester: «Una partita che è l’emblema del nostro campionato»

Pietro, ingegnere trapiantato a Chester: «Una partita che è l’emblema del nostro campionato»

“Ecco, inizia. Quelli sul campo sono la pizza, il sole, il mare, il Maschio Angioino, i miei genitori, i miei amici, tutti i miei ricordi. Li vedi?”. Commuove l’amore per il Napoli di Pietro Amodio, 42 anni, emigrato in Inghilterra, che, per sua stessa ammissione, da quando è lontano tiene ancora di più alla squadra perché gli manca Napoli. Ingegnere aeronautico, vive in Cavendisch Court, Lache Lane, Chester (UK). Prima di trasferirsi in Inghilterra, nel 2013, ha vissuto 27 anni al Vomero, 6 a Scampia e 7 a Mosca. Racconta che a Chester si vive benissimo, a misura di famiglia: “La gente è disponibile, sorridente, rilassata. I servizi funzionano, non c’è traffico, c’è tanto verde. Sul lavoro tanta fatica, ma anche tante soddisfazioni, che in Italia mi sarei sognato. L’Italia è il paese migliore del mondo, ma per fare il turista”.

I suoi piatti preferiti sono la parmigiana di melanzane, gli spaghetti alle vongole, la zuppa di pesce, il ragù e la mozzarella, beve caffè Kimbo importato da Napoli. Della sua città, che considera una mamma (“Sono figlio di Napoli, grazie a Dio!”) gli mancano il cibo, gli amici, parlare napoletano per strada e girare per le strade in moto. La tradizione che lo affascina di più è quella del caffè sospeso: “Rappresenta l’essenza del napoletano”, dice. Legatissimo a San Martino per la vista mozzafiato sulla città e per i ricordi di gioventù, è stato al San Paolo per la prima volta nel 1983: Coppa Italia Napoli-Cesena 2-0, reti di Diaz e Pellegrini. Il nostro stadio, per lui, “è come piazza San Pietro di domenica per i cattolici: sacro”.

Pensa che Benitez sia un ottimo allenatore e ne condivide le ambizioni di crescita, ma gli dispiace che non riesca sempre a trasmettere grinta alla squadra. I giocatori che preferisce sono Gabbiadini, “per l’affidabilità” e Hamsik, per l’attaccamento alla maglia. Sfiduciato per questo finale di stagione (“Temo finiremo dietro Roma e Lazio. Stagione fallimentare”), l’anno scorso ha rescisso il contratto Sky, perciò vede la partita al pub Town Crier, con suo nipote Antonio, di passaggio a Chester per lavoro. Commenta la partita via whatsapp con l’amico Fabio, napoletano emigrato al Nord. Impreca contro la difesa al gol della Juve, spera che Mertens infonda la sua grinta nei compagni: “Non posso mai pensare che perdiamo ‘sta partita! – dice – Se pareggiamo, poi la vinciamo”. Non smette di crederci neppure dopo la terza pinta, le patatine fritte e gli anelli di cipolla. Eppure perdiamo. “Una partita che è l’emblema del nostro campionato”, dice. “Perché tifo Napoli e non seguo il cricket o la canoa?”, si chiede. E allora è meglio far finta che il calcio non esista, che non esista quella cosa sferica bellissima che si chiama palla. Che non sia mai esistito questo sabato. Va dritto a casa a giocare con suo figlio, e a carezzare la pancia in cui nuota la piccola che arriverà a luglio. Cinicamente indifferente: è l’unico modo per uscirne indenne, oggi.
Ilaria Puglia

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