Cogliendo l’occasione dal recente caso Napoli-Sarri, che ha visto nascere molti profili fake dell’allenatore toscano, abbiamo intervistato Davide Bennato, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania, in precedenza docente di Teoria e Tecniche dei Nuovi media alla Sapienza di Roma e alla Luiss, per una riflessione sui social media e sul fenomeno diffuso dei profili fake.
Nel mondo dello sport, come in tanti altri, sono diffusissimi i fake dei personaggi più famosi, alcuni hanno anche cercato di capire il perché intervistando chi li aveva creati come nel caso del profilo di Zeman. Ma esiste una lettura sociologica della smisurata importanza che assume oggi avere un profilo social?
Le scienze sociali contemporanee hanno studiato la questione relativa all’uso di una identità digitale e sono giunte alla conclusione che esiste una pressione sociale che porta ad avere un profilo sui social media, ma dipende molto dalla volontà che la persona ha di usare questi strumenti di socializzazione e soprattutto dalle aspettative della nostra rete sociale.
Detto più semplicemente: io posso anche decidere di non avere un cellulare, ma le persone nel relazionarsi con me daranno per scontato che io abbia un telefonino presupponendo – per esempio – che io sia sempre raggiungibile.
Allo stesso modo io posso anche non avere un profilo Twitter o Facebook, ma le persone intorno a me daranno per scontato che io li abbia, soprattutto se sono un personaggio pubblico.
Cosa spinge una persona ad impersonarne un’altra, con evidente dispendio di tempo e lavoro?
Di solito si interpreta una identità che non ci appartiene per due motivi: o per nascondersi o per esprimere apprezzamento/critica.
Nel primo caso si è ingenui perché esistono miriadi di studi che mostrano che le identità digitali finte prima o poi vengono svelate.
Nel secondo caso perché si vuole dare voce ad un proprio beniamino, quasi fosse una sorta di tributo (il caso del finto account Twitter di Boskov è emblematico). Anche l’ironia va in questo senso: è una forma di apprezzamento – o critica – nei confronti di un personaggio pubblico.
Dietro un fake, per giunta talvolta dichiarato, si nasconde un buontempone o una persona che non ha il coraggio di esporre apertamente il proprio pensiero? Bisogna seguire il pensiero di Umberto Eco: “I social danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere” o c’è un diverso bisogno dietro questo accanimento?
Secondo me non è una questione di goliardia o di mancanza di coraggio, è più un modo per dare una rilevanza che altrimenti non si avrebbe.
A Roma tra la il XVI e il XIX secolo c’era la statua parlante di Pasquino, una scultura sulla quale venivano affissi poemetti satirici di critica al potere politico dell’epoca, in cui l’autore dei versi restava rigorosamente anonimo.
Nel caso degli autori di account Twitter fake potremmo parlare di un effetto Pasquino: si nasconde la propria identità interpretando un personaggio famoso, così quello che twitto potrà avere maggiore visibilità e circolazione nei social network.
Umberto Eco secondo me è stato eccessivamente tranchant nel giudizio di ciò che circola sui social media. È vero che c’è molta intolleranza, turpiloquio o ingenuità in alcune conversazioni online, ma questo è un problema sella società in cui viviamo, non dei social.
E la questione che ci siano persone che esprimono idee o conversazioni che sono difficili da condividere è un tema relativo alla libertà di espressione.
Non è un diritto di parola – come dice Eco – ma un diritto ad esprimersi. Che lascia a noi e ad Umberto Eco il diritto di essere in disaccordo.
I fake fanno oramai parte del circuito social? Sono un compensatore, come se non fosse possibile che un personaggio pubblico non abbia un profilo social?
Sì, fanno parte del gioco dei social media, così come la pubblicità che dice che un deodorante ci farà diventare delle persone migliori fa parte del gioco della comunicazione commerciale.
Nessuno crede all’assoluta buona fede di alcuni commenti di account Twitter o Facebook fasulli così come nessuno crede al fatto che la pubblicità dica sempre la verità.
Tranne gli ingenui o quelli che non hanno idea di come funzionano i media, qualunque media.
Anche per il passato allenatore del Napoli sono nati alcuni profili che potremmo definire fake, come ad esempio “è colpa di Benitez”, questo tipo di profili ha un carattere diverso, come potremmo definirlo? E come è possibile inquadrarlo? Quali sono le motivazioni per cui nascono account simili?
In quel caso non siamo in presenza di un account fake – dato che non simula nessun personaggio – ma di un profilo che vuole dar voce ad un sentimento di critica.
Basta guardare alla politica: per ogni account Twitter o Facebook ufficiale, ce ne sono decine di finti che vogliono solo criticare i politici in questione.
In alcuni casi, alcuni di questi profili hanno avuto successo, nonostante fossero dichiaratamente fake, come ad esempio quello dell’allenatore Boskov, tanto da restare attivi anche dopo la morte dello stesso allenatore. Come si può spiegare questo? Esistono studi che possano spiegare da cosa è dovuto il successo di un profilo anche se dichiaratamente fake?
Il successo è dovuto al fatto che esprimono disagio, critica: sono la voce di un sentimento collettivo.
Per questo solo molto seguiti: danno voce a qualcosa che qualcuno pensa e come idea viene condivisa – nel senso di sottoscritta – da tantissime altre persone, l’account di Boskov ad esempio lo seguo anche io.
Francesca Leva