E chi dice che Manolo e il Napoli, anzi Manolo e Napoli, no, non si può, dice una baggianata che è figlia di un racconto della città banalizzante, che riduce una faccenda complicata e enigmatica a folclore pagliaccesco, alessandrosianesco, roba da Made in Sud. Mentre Napoli è stata l’aristocratico Totò (e Manolo è un aristocratico del calcio), città piovosa (“Malacqua”), splendidamente triste (quella della nostra chanson del secolo scorso, tanto malinconica da non potersene non ravvisare assonanze coi lieder di Mahler, cui è accomunata anche dal porre il viaggio dell’umano viandante sempre stretto tra terra e cielo, con un affidarsi, infine, a quest’ultimo che fa a pugni col razionalismo odierno ma non con le leggi del gioco). Tutto ciò nel bergamasco assume i contorni di un moto interiore di cui poco appare all’esterno, ed è fatto forse salutare nella tendenza all’ammuina autolesionista, alla lamentela perenne (cosa diversa dal lamento), se lo si abbina al “muro a secco” della concretezza, della facilità del tiro, del giocare semplice ciò che sarebbe complesso (Cruyff), dell’essere arma offensiva all’occorrenza affilata assai, da riscoprire in questo scorcio finale di uno splendido, inaspettato campionato, per blindare un eccellente ingresso diretto in Champions (chi va meglio di noi ha un Maradona dei portieri, fatturati e altro su cui non vale la pena approfondire se si è un minimo intelligenti). Gabbiadini non è affatto triste solitario e finito, è solo un uomo in blues, e se volessimo dedicargli una canzone dovremmo propendere per qualcosa di Gato, ché c’è una latinità anche in lui, statene certi, e verrà fuori. E magari non ci farà dimenticare altri tanghi, ma aiutarci a ristabilire una misura, il senso di ciò che siamo e meritiamo, si. #IoStoConManolo
Gabbiadini non è affatto triste, è un uomo in blues
Mario Colella ilnapolista © riproduzione riservata