Lo dice la storia, economica e tecnica. Il Napoli di Champions League, il Napoli in Champions League, è una squadra che sa farsi valere sul mercato. Dal punto di vista economico, e pure da quello strettamente tecnico. L’accesso alla massima competizione europea ha sempre suggerito, consigliato, permesso al Napoli di De Laurentiis grandi spese per i trasferimenti.
L’analisi storica che abbiamo portato avanti si basa sulle sessioni di mercato che si affacciavano, in qualche modo, sui gironi della massima competizione continentale. E sono le due sessioni in cui il Napoli si è più esposto, a livello di capacità e quantità di investimento quanto, pure, di rivoluzione tecnica. Non potrebbe definirsi diversamente, se non attraverso questi due parametri, la sessione di mercato post terzo posto con Mazzarri. Che, in qualche modo, viene accontentato in tutte le sue richieste: arrivano due difensori potenzialmente titolari (Britos e Fernandez), due centrocampisti praticamente titolari (Inler e Dzemaili), l’alternativa offensiva di prestigio (Pandev) e pure una piccola pletora di ricambi considerati di livello. Quelli sì, purtroppo, destinati a fallire miseramente nella loro esperienza azzurra: Mario Santana, Marco Donadel e Ignacio Fideleff. L’esposizione economica è importante, anche al netto delle cessioni: 59 milioni di euro, comprensivi del prezzo del riscatto del cartellino di Cavani (12 milioni al Palermo), più altri 13 nella sessione invernale per l’altra meteora Edu Vargas. Totale investimenti: 72 milioni di euro, controbilanciati da uscite non superiori ai 23 milioni di euro. La qualità effettiva degli acquisti è poi, come dire, legata a un giudizio sempre un po’ soggettivo sul rendimento. Inler deluderà in raffronto alla cifra spesa (acquisto più costoso della sessione, 18 milioni all’Udinese), ma nel momento del suo arrivo a Napoli sembrava il profilo perfetto per la squadra di Mazzarri.
C’è un piccolo off-topic, ora. Perché in molti, anche in riferimento a quella sessione di mercato, potrebbero dire e pensare di acquisti conclusi e non portati a termine, oppure abbozzati e poi non finalizzati per mancanza di ulteriori investimenti o per qualsiasi altro motivo. Voci di popolo, quasi leggende metropolitane: Verratti, Vidal e compagnia. Giusto per intenderci sui nomi. In questo pezzo, però, segnaliamo quanto è stato fatto e quando. E cioè, l’aumento verificato degli investimenti di mercato in seguito alla crescita certa dei ricavi attraverso la partecipazione alla Champions. Il resto, il “si poteva fare di più” della prima e della seconda ora, è legato a variabili che non sono nè certificabili e né tantomeno legate a fattori oggettivi. Perché il Napoli, per la tipicità del suo bilancio, è per forza di cose legato alla partecipazione alla Champions e alle plusvalenze di mercato. Senza che una di queste due voci cresca a bilancio, si può esporre fino a un certo punto. Perché, come per la stragrande maggioranza dei club italiani, anche qui è molto difficile se non impossibile differenziare i ricavi rispetto ai premi europei e ai diritti televisivi. C’entra sicuramente la mancanza di grandi strutture di proprietà, ma questo è tutto un altro discorso. E riguarda l’Italia, non solo il Napoli.
Che, invece, quando c’è da menare le mani, non si fa pregare. Nell’estate del 2013, ad esempio, gli azzurri sono qualificati in Champions e reduci dalle plusvalenze per Lavezzi e Cavani. L’argentino è stato ceduto prima del campionato precedente (31 milioni al Psg), con un Napoli non in Champions che si espone sul mercato (estate 2012) per una trentina di milioni. Segnatela, questa cifra. Ci tornerà utile. L’anno successivo, ecco di nuovo i francesi che acquistano Cavani e portano nelle casse partenopee 64 milioni di euro. Il Napoli, nel frattempo diventato di Benitez, risponde con una vera e propria rivoluzione di mercato: 106 milioni di investimento per Higuain, Albiol, Callejon, Reina, Mertens, Zapata, Rafael e Armero in estate, e per Ghoulam, Jorginho e Henrique in inverno. In pratica, l’ossatura della squadra di Sarri e degli ultimi anni.
Ovviamente, è la stagione più costosa, sul mercato, della storia del Napoli. Che genera pure un aumento dei costi pari al 56% nel bilancio del 2014. Come detto sopra: non giudichiamo la qualità degli investimenti, ma semplicemente la quantità. Sempre commisurata alle possibilità, il famoso passo della gamba. Come nelle ultime due estati, del resto. Quelle vissute senza Champions. La prima, quella del preliminare di Bilbao, viene gestita forse con troppa “fiducia” nelle due partite con l’Athletic, con un investimento di 22 milioni e senza i rinforzi adatti non tanto e non solo al campo, quanto a un’iniezione di entusiasmo che forse avrebbe portato il Napoli a superare lo scoglio dei playoff. L’errore è stato in qualche modo “coperto” a gennaio con il colpo di genio Gabbiadini, acquistato per 12 milioni di euro appena dalla Sampdoria. Alla fine, quindi, l’esposizione sarà di 36 milioni. E a fine anno, ecco il primo passivo di bilancio nella storia del Napoli di De Laurentiis.
Il club partenopeo, con questa sua parabola economico-sportiva, spiega quelle che sono le sue peculiarità gestionali. Il legame tra libri contabili e campo, la necessità di arrivare in Champions per poter moltiplicare gli investimenti. Ma anche la possibilità di non cedere i migliori se questo, per sfortuna o mancanza di bravura, non dovesse avvenire. Perché, nonostante l’assenza della Champions, pure lo scorso mercato estivo è stato da 34 milioni (toh, la trentina di cui sopra) per il ritorno di Reina e gli acquisti di Allan, Chiriches, Valdifiori e Hysaj. Più altri 8, a gennaio, per Alberto Grassi. E senza cessioni di rilievo. Parliamo sempre di quantità, non di qualità. Quella passa da un giudizio personale, qui parliamo di situazioni certe, numeriche, verificate. Come i 10 milioni o giù di lì già spesi per Tonelli, che in qualche modo anticipano il futuro e riavvolgono il nastro del passato: il Napoli di Champions si esporrà sul mercato. Anzi, ha già cominciato.