L’ex velocista a Libero: “Siamo il quarto mondo del ciclismo: il Tour de France ottiene di correre ad agosto, e il Giro d’Italia a ottobre? Alle 16.30 sulle Alpi è buio…”
Mario Cipollini viaggia in scia a Marco Pantani. In volata contro l’establishment del ciclismo italiano. Dice che se il Pirata è stato “ucciso due volte”, a lui per ora l’hanno ammazzato una volta sola. Per ora. L’ex velocista toscano, in un’intervista a Libero, spara a zero sul sistema. Proprio nei giorni in cui una di quelle volate “cattive”, che a lui tanto piacevano e che spessissimo vinceva, è finita quasi in tragedia.
«Sono stato nella cappella dove è sepolto Pantani, sono rimasto qualche minuto lì, tremavo, è normale commuoversi. C’è un insieme di sentimenti che affiorano, abbiamo avuto una vita molto simile, quasi come fossimo allo specchio. Lui fondamentalmente è stato ucciso due volte: la prima il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando per colpa dell’ematocrito alto fu escluso dal Giro; l’altra il giorno della morte a Rimini il 14 febbraio 2004, in quelle circostanze mai davvero chiarite che tutti sappiamo. Io, sono stato ucciso una volta soltanto e la seconda fanno fatica, anche se vorrebbero. Mi hanno ucciso quando nel 2013 la Gazzetta dello Sport decide di scrivere che sono stato dal dottor Fuentes e, quindi, coinvolto nell’Operacion Puerto in base a un numero di telefono scritto a lapis su una scheda che riconduce a un casa dove io abitavo a Lucca, mentre in realtà sono residente nel Principato di Monaco. È un colpo simile a quello inferto a Marco a Campiglio, nel momento in cui al mondo viene detto “Pantani vince perché è dopato”. È lì che avviene come una morte, quando tu sai di essere più forte degli altri epperò viene presentata una realtà tramite cui spiegano le tue performance con la chimica. Il sistema deve crocifiggerti in pubblico perché è interessante vedere uno inchiodato mentre è l’emblema, l’icona della forza, dell’assolutezza come era Marco in quel momento e come, in alcuni casi, lo sono stato anche io…».
Domani si disputa la Milano-Sanremo che Cipollini lega a indelebili ricordi personali:
«A 12 anni avevo promesso a babbo Vivaldo che l’avrei vinta, ce l’ho fatta finalmente nel 2002. Quel giorno avevo in tasca la foto di Adriano De Zan, me l’aveva data prima della partenza suo figlio Davide, siamo molto amici: Adriano era un mito per i ciclisti della mia generazione, se veniva ad intervistarti lui significava che ce l’avevi fatta».
Ma lo sguardo di Cipollini per il ciclismo italiano attuale è piano di amarezza. E lui, è indole, attacca:
«Ganna, Binda, Guerra, Bartali e Coppi, Magni, Moser e Saronni, e mi fermo qui, senza entrare nel mondo della tecnica, dei costruttori, dell’abbigliamento made in Italy: questi signori in bicicletta hanno fatto epoca ed epica, sono cultura e storia nazionale. Tutto dimenticato. Non mi riconosco in questa Federciclismo, non mi riconosco in chi gestisce il ciclismo tout court. È vero che il Covid ha creato problematiche enormi, ma se quelli del Tour de France sono riusciti ad ottenere di correre ad agosto, vi pare logico fare il Giro d’Italia a ottobre? Alle 16.30 sulle Alpi è buio, per non parlare del meteo. Siamo ormai il quarto mondo del ciclismo. Mi domando: ma perché non si crea una Coverciano del ciclismo? Si potrebbe farvi confluire corridori di tutte le età e categorie, permettere alle squadre World Tour di vivere lì e intorno creare una sorta di college all’americana dove si convive; dilettanti, under 23, juniores, allievi, tutti a lavorare, collaborare, crescere, migliorare. Immaginate: nel giorno in cui il professionista tipo Nibali fa pochi km di scarico porta con sé anche allievi ed esordienti. Diventa così una scuola a tutti gli effetti, come se nella giornata di recupero i ragazzi andassero a palleggiare o fare tiri in porta con Cristiano Ronaldo. Ci sarebbe qualcosa di meglio? Invece… Penso a un Belgio che sforna talenti in serie tipo Evenepoel o Van Aert e noi siamo ancora appesi all’immenso Nibali, che però non è infinito. Chi c’è oggi dietro a Vincenzo, o anche accanto a lui? Qual è il nostro futuro? Spiace dire una cosa del genere».