L’assistent coach dei Toronto Raptors a Repubblica: «Negli Stati Uniti il problema razzismo è reale come la violenza della polizia, non solo verso i neri. Il suprematismo fa parte della cultura americana»

Repubblica intervista Sergio Scariolo, assistant coach dei Toronto Raptors. Il tema è quello della protesta dei giocatori Nba contro le violenze della polizia che ha causato il rinvio di alcune partite. Ora la Nba ha deciso di ripartire. Scariolo indica come un grande errore il fatto che i giocatori di Millwaukee abbiano deciso da soli, senza cercare di coinvolgere altre squadre, che erano comunque pronte alla protesta.
«Bisogna utilizzare la razionalità. I gesti spontanei non portano grandi risultati in tempi immediati. I giocatori di Milwaukee hanno scelto da soli. Questo è stato il loro grande errore, avrebbero dovuto coinvolgere tutti gli altri. Nell’assemblea di giovedì si sono scusati più volte, non è stata chiaramente una decisione felice. Altri giocatori ci stavano già pensando…».
Su LeBron James, considerato il simbolo della lotta:
«LeBron è forse il giocatore con la piattaforma di comunicazione più ampia di tutti, e con grande coscienza sociale la utilizza, ma anche LeBron non può ottenere nulla da solo. Noi nel nostro microcosmo lo vediamo come un essere onnipotente, ma dal punto di vista di chi comanda il mondo molto meno».
Scariolo indica cosa potrebbe fare concretamente la Nba per la lotta al razzismo.
«Promuovere investimenti nelle zone più ghettizzate, più tenute nell’ignoranza, con meno possibilità di promozione sociale. Spingere per una riforma della polizia perché abbia finalmente più educazione e formazione mentale e sociologica. Più lì che sulle armi, che hanno dimostrato, diciamo, di saper usare. La chiave sono i proprietari delle franchigie, persone molto facoltose. Anche se alcuni sono trumpiani o repubblicani, nessuno può permettersi di non essere d’accordo sulla lotta al razzismo».
E afferma che il razzismo, in America, esiste eccome.
«Negli Stati Uniti il problema razzismo è assolutamente reale come la violenza della polizia».
Lui lo ha provato sulla sua pelle, racconta.
«Due volte: la prima, alla Summer League di Las Vegas. Ero in ritardo, ho parcheggiato la macchina e cominciato a correre. Dopo venti metri mi sono visto afferrare di peso da due poliziotti che mi hanno spinto contro una macchina, mi hanno perquisito e interrogato in modo molto duro, perché sospettavano scappassi da qualcosa. La seconda a Los Angeles. La strada era molto liscia. Ripartendo da un semaforo, avevo sgommato, facendo quel rumore tipo ihhhhhhhh. Dopo cento metri due macchine della polizia mi hanno fermato a ‘vu’, in mezzo alla strada. Sono usciti due agenti armati, mi hanno detto di alzare le mani e anche qui, uscito, perquisito, eccetera, situazioni che in qualsiasi altra parte del mondo si fermerebbero a parlarti. Non sono stato vittima della brutalità, ovvio, ma sono esperienze sgradevoli che ti dicono che qualcosa non va».
E non si tratta di razzismo solo verso i neri.
«Bisogna vivere qui per capire che il razzismo esiste, non solo verso i neri. Anche verso gli ispanici. Il suprematismo, purtroppo, fa parte della cultura americana. È una nazione molto giovane dal punto di vista della teorica giustizia razziale. Le leggi razziali sono state abolite quando nascevo io, voglio dire, in tempi relativamente attuali. Guardarla con l’occhio europeo non aiuta».