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Gigi Cagni: «Non ci sono più educatori. Anche nel calcio tiriamo su una generazione di eterni ragazzini»

Ad Avvenire: «Nel calcio non si insegna più la sofferenza, non si insegna più a perdere. Il calcio è ruffiano, è sparita la meritocrazia, questa nuova generazione di allenatori pensa più che altro ad apparire, va dietro alle mode» 

Gigi Cagni: «Non ci sono più educatori. Anche nel calcio tiriamo su una generazione di eterni ragazzini»

Su Avvenire un’intervista a Gigi Cagni, ex calciatore ed allenatore oggi 70enne.

«Il calcio si è snaturato quando nella scala dei valori al primo posto ha messo i soldi. Se credi nel denaro, alla fine perdi. Succede nel calcio e succede nella vita».

Il calcio moderno, per lui, è ruffiano.

«Ruffiano, sì, perché è sparita la meritocrazia e perché mi sembra che questa nuova generazione di allenatori pensi più che altro ad apparire, vanno dietro alle mode. Stanno facendo passare l’idea che vince il sistema di calcio e non il giocatore: è una grossa fandonia, ma finisce che poi la gente ci crede».

Il calcio non educa più, spiega.

«Ti faccio un esempio. Abito a Chiavari, sulla strada di casa c’è una scuola elementare, la mattina vedo i genitori che vanno a prendere i loro figli, si fanno dare lo zaino e lo portano loro. Ma dico: si può? Ma è così che educhiamo i nostri ragazzi? Parto da qui per arrivare al calcio: non ci sono più educatori e anche nel calcio italiano – eccolo il grande problema – stiamo tirando su una generazione di eterni ragazzini. Sai qual è il vero dramma? Nel calcio non si insegna più la sofferenza, non si insegna più a perdere. Ogni sconfitta sembra un fallimento, invece è solo un passaggio, ma bravo chi lo capisce».

Racconta la sua adolescenza, quando, a 14 anni, lavorava in officina come operaio specializzato in catena di montaggio.

«Otto ore al giorno, sembravo Charlie Chaplin in quel film, Tempi moderni: prendevo 90mila lire al mese, erano soldi. Quando il Brescia mi ha preso mi sono licenziato dalla sera alla mattina, senza dirlo a casa. Mia madre l’ha saputo e mi ha dato una sberla che ancora mi fa male, solo a pensarci. L’allenatore Sandokan Silvestri mi teneva ore e ore al muro ad affinare la tecnica, si metteva dietro di me e mi dava certi cazzotti sulla schiena… È per il tuo bene, mi diceva. Altri tempi, certo. Ma non voglio fare il nostalgico. Viviamo un tempo diverso, ma dobbiamo imparare a gestirlo».

Ricorda i tempi di quando lui era calciatore e li mette in contrapposizione con i tempi moderni.

«Una volta entravi in uno spogliatoio e ti sentivi parte di un gruppo, ora non è più così. Si ragiona individualmente, ognuno si fa gli affari propri. Quando anni fa ho letto che in nazionale gli azzurri avevano camere singole ho pensato: è finito tutto. Il calcio è condivisione. Solo così si cresce, altrimenti si resta quello che si è, nel bene e nel male».

 

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