Mio figlio Alessandro ha nove anni. Gioca a pallone da sempre: appena nato, suo padre ed io pensavamo giocasse con una palla immaginaria, perché muoveva di continuo le gambette nella culla. Per lui tutto è stato sempre incentrato sul pallone.
Non è mai stato un giocatore nato, uno di quei bambini che gli vedi i movimenti del calciatore addosso, che atteggiano il braccio in quel modo o in quell’altro, che hanno quella splendida visione di gioco che fa loro scovare spazi dove tu a prima vista non li vedi. È stato sempre uno al servizio della squadra. Detestando la competizione, non ha mai rincorso il pallone fino a sotto porta per tirare in rete: arrivato in area avversaria, ha sempre preferito passare palla al compagno più vicino, sacrificarsi, recuperare, aiutare in difesa.
Dai cinque agli otto anni si è allenato sul campo della scuola. Refrattario alle regole, sensibile al limite della fragilità, ‘impossibile’ sia in aula che a casa, ha trovato nel suo mister l’unico capace di tenerlo a bada. Con lui in campo non ha mai fiatato, anzi, ha accettato in silenzio gli urli in testa e apprezzato ancora di più, dopo, le carezze. Soprattutto, in campo si è sempre divertito perché giocava con gli amici. Finché si trattava di partitelle tra amici. Fino a quest’anno.
Ormai novenne, il campetto scolastico non andava più bene per un fisico che iniziava a trasformarsi in quello di un ragazzino con persino gli odori degli ormoni da maschio. Così, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio iscriverlo a una scuola calcio più seria.
La scelta non è stata facile. Ci spaventava l’eccesso di serietà di alcune squadre, quelle in cui o sei il migliore o la domenica non giochi. Ci faceva orrore l’eccesso di competitività dei genitori, che troppo spesso avevamo visto ai margini del campo ad incitare i propri figli ad entrare duro sugli avversari pur di far gol. Perciò abbiamo scelto una scuola calcio di periferia, nella zona flegrea, pur avendo il Collana sotto casa: appena iscritta alla Figc, ci sembrava una via di mezzo verso il professionismo e poi il mister era lo stesso che lo allenava a scuola, l’unica autorità davvero riconosciuta da mio figlio.
Sono iniziati gli allenamenti, Alessandro sembrava contento, ha fatto amicizia con i nuovi compagni, ha firmato, emozionatissimo, il suo tesseramento alla società. Poi, è iniziato anche il campionato federale.
Da sempre Alessandro ha difficoltà a misurarsi con gli altri, a confrontarsi. La fragilità emotiva lo ha sempre portato a fare cilecca di fronte alle prove più importanti. Proprio per questo lo abbiamo inserito in un nuovo contesto: personalmente, volevo regalargli un’esperienza di crescita, dalla doccia da solo nello spogliatoio al confronto con realtà diverse dalla sua, con bambini più pronti. Ma quando è iniziato il campionato mio figlio ha iniziato ad avvertire strani mal di pancia prima della partita, mal di testa che lo facevano impallidire, ha iniziato a sospirare e a dirmi: “Sai, mamma, non mi va tanto di giocare, oggi”. Roba strana se detta da uno che non ha mai smesso di dare calci ad un pallone, neppure mentre ripete la lezione di storia.
Le prime partite di campionato sono state una tragedia. Mio figlio stava in campo spaesato, rigido come un tronchetto, terrorizzato dai contrasti, impaurito e confuso, sembrava non sapere a chi passare palla. I risultati sono stati pessimi, per lui e per la squadra. Dopo l’ultima sonora sconfitta gli ho chiesto se magari non gli piacesse più giocare a pallone, se preferisse cambiare sport. “No, mi piace fare allenamento – mi ha risposto – Sono le partite che non mi piace fare, perché si deve vincere, e io ho paura”. Paura di vincere, ansia da prestazione, rifiuto della sia pur minima competizione. Roba da alieni, per un adulto, forse, ma incredibilmente reali nell’immaginario di un bambino ancora un po’ immaturo.
Intanto, però, nelle partite amichevoli con i compagni di scuola, di quelle che si organizzano per festeggiare i compleanni in classe, Alessandro era tra quelli che segnavano di più: si lanciava a testa alta e schiena dritta sul pallone e, soprattutto, rideva moltissimo.
È stato allora che mi è venuto in mente di adottare la cura Sarri. L’ho messo accanto a me durante le partite del Napoli e gli ho chiesto di guardare il Pipita in campo: “Cosa vedi? Guarda il viso di Higuain mentre tocca il pallone”. “Sorride”, mi ha risposto, sorpreso del fatto che Gonzalo sembrasse soprattutto allegro. Gli ho spiegato che Sarri, incontrato per la prima volta il Pipita, gli aveva chiesto proprio questo, di divertirsi. Gli ho detto di liberare la mente, di entrare in campo lieto, felice di avere la possibilità di indossare una maglia che vuol dire squadra, di dimenticare il traguardo della vittoria, di divertirsi e basta. Non ho accennato il minimo accento toscano e neppure indossato una tuta, mi sono solo aggiustata un po’ gli occhiali sul naso per atteggiarmi a Maurizione nostro. E ha funzionato. Durante la penultima partita di campionato, Alessandro è apparso più rilassato, ha segnato e la squadra ha vinto.
Ho continuato con la cura Sarri ogni giorno, con metodo, ricordandogli ogni volta quanto sia bello giocare per divertirsi. L’altra sera ci è capitato di guardare insieme la trasmissione di Giletti in onore di Bocelli: era con me quando Higuain ha elogiato Sarri perché quest’anno lo sta facendo divertire. “Mamma, ha detto che si diverte!”, ha urlato ridendo. Aveva metabolizzato la cura Sarri ascoltando le parole di Gonzalo. Sua madre non stava dicendo una bugia, non raccontava frottole tanto per farlo sentire meglio. Era reale.
Domenica l’ho accompagnato alla partita di campionato. In macchina ha iniziato a sospirare. Gli ho messo le mani sulle spalle e gli ho detto di respirare, di liberarsi della tensione, di sorridere perdendosi nel verde che aveva sotto i piedi come in una prateria sconfinata.
Alessandro è entrato in campo che sembrava un altro. Concentrato, è andato a prendersi palla senza aver paura di metterci il piede, guardava solo gli avversari e i compagni. Non ha guardato verso gli spalti nemmeno una volta. Ha segnato uno splendido gol di testa che ha aperto la strada ai compagni. La squadra ha vinto la partita giocando con il pressing del miglior Napoli di quest’anno. Un’alchimia perfetta.
Alla fine della partita, è venuto da me ad abbracciarmi. “Come abbiamo giocato? Hai visto che gol che ho fatto?”. Gli ho detto che sì, lo avevo visto e gli ho chiesto come si fosse sentito a giocare così. “Libero, mamma, mi sono sentito libero”.
La cura Sarri applicata ad un bambino di nove anni. Magari il campionato Alessandro e la sua squadra lo perderanno, magari mio figlio non segnerà più nemmeno un gol, ma l’idea di felicità di Sarri è attecchita anche solo per un attimo riuscendo a liberarlo della paura e a farlo sorridere come Higuain.
Vale la pena continuare a somministragli l’insegnamento in pillole. Magari prima o poi riuscirà anche a dare il meglio all’interrogazione di storia. Certo, è difficile sorridere, mentre ripeti la civiltà sumera, ma forse, scavando nelle parole del mister in conferenza stampa, o studiando i tratti del suo viso mentre impartisce consigli a bordo campo, troverò la chiave per riuscire a fargli fare anche quello. Spero che la sua insegnante capisca, se dovesse ridere spiegando cos’è una “ziqqurat”, che non si tratta di un sorriso di scherno, ma che un bambino, grazie alla gioia, ha recuperato l’autostima. Sono cose che non sempre ti insegnano sui banchi di scuola. Ben venga il gioco del pallone, se serve anche a questo.