I RACCONTI DI UN ALTRO CALCIO – Quando allenatori, giornalisti e calciatori facevano notte all’osteria e non c’erano le barriere di oggi
IL DIVANO DI CARRATELLI
In prosa e in versi azzardati il calcio che rinacque nel dopoguerra. Ricordi, personaggi, aneddoti, avventure. Via con la prima puntata.
È uno di quei giorni, e sono tanti ormai, che mi prende la malinconia, cara Ornella Vanoni, e non c’è niente di più triste in giornate come queste di lockdown che ricordare la felicità di quel pesante pallone di cuoio, quel mondo lontano del calcio di amici, come eravamo quando eravamo, e ci conoscevamo tutti, non c’era il tumulto di radio e televisioni di oggi, nascevano simpatie spensierate e amicizie vere, il nostro Circolo Pickwick di viaggi in vagone-letto, e giocatori, allenatori, giornalisti eravamo sempre gli stessi, e le maglie avevano sempre gli stessi storici colori, e tutto scorreva lentamente fra una partita e l’altra per ritrovarci e raccontarci frizzi e lazzi di un pallone romantico.
E si scriveva per intere settimane col lasciapassare negli spogliatoi senza barriere, tutti i giorni, noi giornalisti fra loro, giocatori e allenatori, per capirsi e forse anche capirci, come direbbe Marzullo, quando una partita era appena finita e una nuova sarebbe iniziata e, spesso, conoscendoci tutti molto bene, realizzavamo interviste marzulliane, giocatori e allenatori ci dicevano fatevi le domande e scrivetevi le risposte. Sulla fiducia.
Quel nostro bel mondo cominciò con Rocco, in campo e all’osteria. Ci incontravamo all’Assassìn, il ristorante milanista di Milano, dove Nereo ci raccontò quando aveva giocato nel Napoli alla fine degli anni Trenta. “Quel mona di Beato mi massaggiava solo la gamba sinistra e poi mi diceva puoi andare, e io gli chiedevo della gamba destra, e lui diceva che mi serviva solo per camminare, e aveva ragione, io tiravo solo di sinistro, però era un gran sinistro, ciò. Mia madre voleva che diventassi ufficiale di Marina, donna benedeta, mio padre voleva che diventasi zonatòr de pianoforte, omo benedeto. Ho avuto un nonno che era scappato con una spagnola domatrice di cavalli da circo. E io avevo voglia di scappare e scappai col pallone, trecento lire per giocare in casa e quattrocento fora. Ero uno dei giovanotti più ricchi di Trieste”.
Michelangelo Beato è stato per quarant’anni il massaggiatore napoletano con le mani d’acciaio, una caramella per ogni giornalista, i giocatori lo chiamavano Nanninella e lui li rincorreva con una lametta tra le dita, Luciano Comaschi tra quelli che lo canzonavano di più era la vittima preferita.
I tempi del “catenaccio”. Il battitore libero. Il primo fu il romano Alberto Piccinini, padre del giornalista Sandro Piccinini. Apparve a Salerno, anni Quaranta, alle spalle di tutti i difensori, allenatore Gipo Viani, cane e gatto con Rocco da quando Nereo giocava nella Triestina e Viani nel Treviso. In campo, raccontava Rocco: “Lu me ciamava bastardo e mi ghe spudava sul naso”. E aggiungeva: “Gipo voleva fare l’avvocato, ma non ebbe i soldi per studiare, il pallone gli dette i soldi e lo tolse dai tribunali”.
Allora, caro paròn Rocco, il catenaccio l’ha inventato Viani a Salerno (ah, il vianema) o tu a Padova con quella banda di spazza-palloni che si chiamavano Blason, Scagnellato, Zanon, Azzini e compagnia menando? “Il catenasso no lo go inventado mi, no. Ma non lo ga inventado manco lu, il Gipo. Lo ga inventado il Giuseppe Banas che era uno straniero. Glielo vidi fare a Padova. Il catenasso non lo go avemo inventado né mi, né Gipo. Mi lo go appoggiato”.
Questo era il nostro tempo e questi i racconti. I titoli dei giornali nascevano dalle battute degli smargiassi delle panchine, maestri di sport e di vita, giullari del pallone, filosofi ironici, menestrelli di tattiche ingenue e di superiori bravate. A Napoli ci capitò la fortuna di avere Bruno Pesaola, il petisso di un milione di sigarette, i suoi primi racconti con la cadenza castigliana al Ragno d’Oro di Piazza Medaglie d’Oro al Vomero, e noi suoi soggiogati alunni della luna nelle notti infinite fra whisky e risate, e il cameriere che chiedeva mister vuole ancora un po’ di whisky e il petisso che rispondeva e chi ha detto un po’?