«Sapevo che saresti venuto a chiedermelo di nuovo in questi giorni. E allora ti ripeto che, come in parte ho scritto in “Libri e cazzotti”, risponde a verità che Licio Gelli mi propose di pubblicare un libro che aveva appena finito di scrivere approfittando della latitanza e che rifiutai perché nel diario che mi consegnò in una maniera degna di una spy story c’era solo la storia della sua vita non l’annuncio del suo pentimento. E l’elenco dei gentiluomini con i quali si era accompagnato. In pochi minuti decisi che il gioco non valeva la candela».
Piazza Dante, angolo Port’Alba: siamo nel suo regno. Tullio Pironti pesca nei ricordi di una vita che più vissuta non avrebbe potuto essere e la storia di quell’incontro carico di suspence e poi finito in una bolla di sapone ritorna nitida. E inquietante. Anche perché quella notte, in una villetta quasi sepolta in un bosco della provincia bolognese, ebbe paura di essere finito in un bel pasticcio. Da una parte il venerabile latitante e braccato dalla polizia, dall’altra lui solo e inerme nella notte bolognese. Gli venne voglia di tornarsene a Napoli, ma l’ardimento dell’editore corsaro che con lui convive da sempre e gli ha consentito di entrare nel grande mercato dell’editoria partendo dalla periferia del mondo editoriale lo obbligò a non indietreggiare. «Presi solo una precauzione e dissi all’amico che mi aveva accompagnato, Ernesto Vittoria, di avvertire la polizia nel caso non fossi ritornato entro mezz’ora. Per fortuna non ce ne fu bisogno».
La notizia, come abbiamo detto, è in parte nota, ma i particolari sono inediti e, trent’anni dopo, fanno ancora clamore. Ricostruiamoli con l’aiuto di Tullio con il quale abbiamo parlato qualche ora fa riuscendo a distrarlo per pochi minuti dal lavoro. Che, insieme al pugilato, è la ragione di una vita segnata da incontri straordinari con Fernanda Pivano, Federico Fellini, Leonardo Sciascia, Petra Krause, Giulio Andreotti, Ben Jelloun e Joe Marrazzo che per lui scrisse il “Camorrista” che ancora oggi è un testo fondamentale per la comprensione di un fenomeno criminale pari alla mafia e alla ‘ndrangheta. Una vita di pugni dagti e presi e di un knock out che gli consigliò di appendere i guantoni al chiodo dopo aver boxato in nazionale con Nino Benvenuti.
Veniamo all’amarcord con “Belfagor” partendo dalla data e dalla richiesta di Licio Gelli. Come si fece vivo?
«Con una telefonata in casa editrice. Non so se fosse proprio Gelli a parlare e preferisco riferirmi ad una voce che mi sollecitò un incontro sull’autostrada nei pressi di Bologna. Da lì ci saremmo inoltrati in un bosco al centro del quale c’era la villetta nella quale avrei trovato Gelli. Se teniamo conto del fatto che la cattura di Gelli avvenne il 22 maggio del 1981, diciamo, quindi, che l’incontro mi venne richiesto qualche mese prima».
Veniamo ai particolari: come venisti accolto?
«Con Gelli non parlai, ma ebbi la sensazione che fosse presente nella villa, magari nascosto in una stanza. Parlai, invece, con un suo fidato collaboratore, Pier Carpi. Gli chiesi del Gran Maestro e mi rispose che, per ovvi motivi, non poteva essere presente e subito dopo mi consegnò un bel po’ di pagine dattiloscritte. Firmammo un contratto e versai anche un anticipo. Ero gongolante, avevo da poco pubblicato “In nome di Dio” in cui l’autore inglese David Yallop sosteneva la tesi che papa Luciani fosse stato ucciso. In quel libro molte pagine erano dedicate a Licio Gelli – fotografato, tra l’altro, abbracciato ad Andreotti – e al progetto della P2 di impossessarsi dell’Italia e pensai che il manoscritto che Pier Carpi mi aveva appena consegnato contenesse un autentico scoop editoriale. Con nomi, cognomi e indirizzi dei “compagni di merenda” del Venerabile».
La gioia, però, durò poco.
«Pochissimo, giusto il tempo di capire che Gelli voleva farmi il pacco, come diciamo noi a Napoli, e ottenere da me il favore di pubblicare la sua biografia. Non c’erano denunce in quelle pagine né rivelazioni scottanti. Era paccottiglia anche se con la firma di Gelli e questo poteva spingermi a pubblicarle con il titolo che lui stesso mi suggeriva: La mia Loggia. Non volli e chiamai l’Ansa rivelando al cronista di essere in possesso del memoriale di Licio Gelli e del contratto che avevo firmato con lui ma che non lo avrei stampato».
E non ti sei pentito della decisione.
«No, era la cosa più giusta da fare. Anche se immediatamente dopo che la notizia venne diffusa in casa editrice piombò il giudice Sica che su incarico della Procura di Roma sequestrò il memoriale. Ovviamente i miei collaboratori avevano già provveduto a fotocopiare tutto».
Ne eravamo certi.
Carlo Franco