ilNapolista

È un anno che Gattuso ci ripete che il responsabile è lui. Ci ha quasi convinto

Da Napoli-Fiorentina ad Ibra, la retorica del coltello tra i denti e del veleno ha quasi un anno e i risultati sono gli istessi. Ma non aveva curato lo spogliatoio a gennaio?

È un anno che Gattuso ci ripete che il responsabile è lui. Ci ha quasi convinto

Non l’avessimo sperimentata già per quasi un anno, ci verrebbe da dire che a Gattuso servirebbe la Cura Gattuso. Ma entreremmo in un loop di cause ed effetti, tipo l’uovo nato prima della gallina che l’ha deposto. La sensazione di dejavu, però, è straniante. Il tecnico del Napoli – descritto per cliché come “infuriato”, “che non le manda a dire”, “che non ha peli sulla lingua”, l’uomo che mica perde tempo a indicare la luna, lui la luna se la magna – è dal 18 gennaio 2020 che ripete in fotocopia sempre le stesse cose. Napoli-Fiorentina 0-2. Tra un po’ festeggiamo un anno di conferenze stampa incazzate, senza per altro avere la percezione dell’effetto shock ormai disinnescato dalla ripetitività.

All’epoca – si era un un altro mondo, la gente poteva esultare abbracciata allo stadio – Ibrahimovic era ancora libero sul mercato, e Gattuso doveva sanare i mali del Napoli riordinando lo spogliatoio dell’ammutinamento. Parlava, allora, come un sergente di ferro, e la critica annuiva affascinata: così si fa. Dilla tutta, Gennaro. Prendili a calci questi viziatelli!

Ora siamo a novembre, e il dibattito nazionale infuria sulla “salvezza del Natale”. Il mondo – il mondo! – è cambiato, ma il Napoli no. E non lo diciamo noi del Napolista, che siamo un po’ stronzi e Ancelottiani, no. Lo dice lui. In un copincolla quasi imbarazzante delle stesse arringhe ascoltate a gennaio. Il giochetto è facile, lo proponiamo come un divertissement:

“Il primo responsabile sono io: sembrava che ci fossimo incontrati stamattina per la prima volta e questo non va bene”.
(gennaio)

Sono io il responsabile. La guido io la squadra, le scelte le faccio io”
(ieri)

“Ho visto una squadra senz’anima. Sembra che ci siamo incontrati stamattina, ci siamo messi la maglia e siamo scesi in campo. Così non si può continuare, abbiamo toccato il fondo (gennaio)

“Ci dobbiamo assumere delle responsabilità di giocare più seriamente. Bisogna stare sul pezzo
(ieri)

“Vorrei vedere del veleno in corpo, gli occhi della tigre. Dobbiamo giocare col coltello tra i denti”
(gennaio)

“Ci manca di arrivare alle partite con l’occhio diverso. Vedo atteggiamenti che non mi piacciono. Ci manca la mentalità”
(ieri)

“Questa è una squadra che deve cominciare a dirsi le cose in faccia. Ho giocato per anni con gente che mi stava antipatica, ma in campo davo tutto
(gennaio)

“Tante volte vogliamo fare i professorini. Ho visto atteggiamenti che non mi piacciono in cui ci siamo messi a discutere con l’arbitro e a fare questioni facendo i maestri”.
(ieri)

La descrizione di un attimo, l’attimo che a gennaio la stampa raccontò come fuggente coi toni epici della svolta, era quella del “confronto acceso”, del “faccia a faccia” chiesto dal gruppo. Il Corriere dello Sport, ne parlò come del punto “da cui iniziò la rinascita”.

Di cosa parliamo ancora, allora? Il calco delle espressioni è lo stesso, adatto ad una crisi che però fino alla doppietta di Ibrahimovic non sapevamo di avere. Dopo 11 mesi c’eravamo convinti che Gattuso avesse, come usa dire, “compattato” l’ambiente. L’utilizzo sapiente del bastone e della carota, come chiedeva Insigne. Il trasformismo tattico al servizio dei giocatori. Ce lo siamo ripetuti come un mantra, fino ad ipnotizzarci come le galline di Giucas Casella. Sì, noi siamo le galline.

Nel frattempo la classifica regalava numeri diversi, spesso stagnanti, sicuramente molto diversi dalla narrazione di contorno. Non ha aiutato lo 0-3 a tavolino che da queste parti abbiamo letto – tutti – come un tesoretto di punti abbastanza scontati. Ci ha distratto, gonfiando una bolla che ci è scoppiata in faccia due volte, in casa: la prima col Sassuolo, la seconda col Milan.

Gattuso ha ripreso in mano il copione ormai consunto e ha ricominciato da dove aveva messo l’orecchietta: gli occhi della tigre, lo stare sul pezzo, il coltello tra i denti. “Il responsabile sono io” come artificio retorico funziona all’inizio come collante del gruppo, ma se lo ripeti per quasi un anno, poi alla fine uno comincia a crederci.

E ad interrogarsi: chi sono i professorini? Per Gattuso è l’accusa più pesante: gli snob che s’atteggiano a prime donne mentre le prendono di qua e di là, sono il nemico che regge l’architettura di tutto il suo pensiero. Grinta, sudore, ambizione, sacrificio senza il maestrino che non s’impegna hanno meno senso. Ed ecco quindi che tornano nell’analisi del post-match, incombenti. Con chi ce l’ha, Gattuso? È un plurale maiestatis, o ha qualcuno in mente? Mertens? Mario Rui? Fabian Ruiz? Chi?

All’ennesima replica del discorso motivazionale, forse sarebbe il caso di fare un passo in avanti, non indietro. A questo punto del campionato, un anno fa, il Napoli aveva due punti in più classifica. Era quarto e non sesto. Ed era alla vigilia dell’ammutinamento. A gennaio, dopo Napoli-Fiorentina 0-2, la presa retorica della responsabilità poteva avere un senso. A novembre no, suona scaduta.

ilnapolista © riproduzione riservata