L’ha detto col sorriso Mertens. Dopo un anno di goleade e stenti, rinascite e torpore, tracciare una linea tattica è quasi impossibile. Persino per i giocatori

«Ormai non lo so più dove gioco»
Mertens non lo sa a che gioco sta giocando. Sa che gli piace, si diverte. Sorride mentre infila le parole al microfono, a scanso dei malintenditori: non è mica polemica. Però poi detta la frase a cui noi cattivi ci appigliamo:
«Stiamo ancora un po’ cercando come giocare»
È un anno che il Napoli è nelle mani di Gattuso, e il moto ondivago a cui ci siamo abituati comincia ad essere un problema. Un anno, nel calcio, è tanto. Un anno di un allenatore non vale sette anni di un uomo. E questa lassità, il credito di tolleranza riservato a Gattuso, è un inedito da queste parti: per i risultati, non più considerati matematica ma opinione, e per l’identità.
A sfogliare il Napoli degli ultimi mesi ne esce fuori un cartone animato schizofrenico. Su e giù, orizzontale o verticale, catenaccio o assedio, liquido o gassoso, lento o a strappi. Tanto che bonariamente abbiamo cominciato a processare l’allenatore per attenuanti, arrivando ad assolverlo con un’etichetta ammiccante: non è un fondamentalista, è mutevole, si adatta. Bravo.
La domanda rivolta a Mertens, sia detto, era surreale: quanto manca a questo Napoli per giocare come quello di Sarri? Che poteva rispondere mai? “Eh, come Sarri è difficile”.
Lo era pure in premessa, a dicembre 2019, quando Gattuso fu ingaggiato per riportare il 4-3-3 e venduto da De Laurentiis come nuovo profeta del sarrismo. Doveva essere quello il tempo della morbidezza, dei giudizi lasciati in sospeso, per dargli l’agio di rottamare il gioco verticale di Ancelotti e passare al passo successivo. Dopo un anno siamo punto e daccapo: goleade e stenti, rinascite e torpore. Tracciare una linea è quasi impossibile. Persino per i giocatori.
Quando Gattuso seppe virare verso un onesto gioco difensivo, dopo aver perso praticamente con chiunque, glielo riconoscemmo. E così abbiamo ammirato nel corso dei mesi la transumanza dei moduli, l’assenza di fondamentalismo, qualche vittoria sporca (come col Benevento), quelle scintillanti con l’Atalanta e con la Roma. Abbiamo segnalato la sconfitta di Barcellona come punto di una svolta che evidentemente non c’è stata.
Mertens, in questo frullato tattico, è la cosa che suo malgrado cambia l’approccio tattico del Napoli, nel bene e nel male. L’ha spiegato molto bene Alfonso Fasano: se nel 4-3-3 puro gioca da prima punta, da riferimento avanzato, nel 4-3-3 “liquido” si muove con assoluta libertà. Ed è contento, l’ha confessato dopo il pareggio con l’AZ, gli piace un sacco.
Mertens ha questa cosa che a fine carriera cominciano con fatica a riconoscergli: segna, è un bomber. Particolare che travalica le disquisizioni tattiche. Non è una mezzala, ma può agire e agisce come mezzala, ed è il compito che gli spetta quando gioca Osimehn, che (ormai lo sanno anche i sassi, figurarsi gli avversari) allunga la squadra, tiene occupata la difesa avversaria, mentre in teoria gli altri gli girano attorno, Mertens compreso.
La spalla diroccata di Osimehn però ha forzosamente riportato il Napoli indietro nel tempo, al 4-3-3 che con i tre centrocampisti tiene tutta la squadra più equilibrata. I numeri sono un feticcio, lo sappiamo. Ma è ormai evidente a tutti – pure alla squadra – che Gattuso è indeciso: non riesce a trovare l’assetto.
L’atteggiamento coccoloso della critica è riuscito a narrare anche questo stallo a fasi alterne come una risorsa: l’alternanza dei moduli, la variazione delle pedine in funzione del contesto, l’adattamento camaleontico che pure abbiamo apprezzato in altre situazioni. Il calcio post-idelogico è il futuro. Basta non chiamarlo “liquido”, ed ecco che piace a tutti.
Ma non è questo il punto in cui si trova il Napoli. Non è stabile nelle sue consapevolezze, non ha una continuità di risultati che giustifichi la retorica del trasformismo tattico come virtù. Semplicemente il Napoli – dopo un anno – non sa a che gioco sta giocando.