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L’Atalanta spaccata è l’ultimo colpo alla perversa narrazione degli spogliatoi Mulino Bianco

La mistica dell’armonia da sempre avvolge il racconto calcistico. Nulla di più lontano della realtà. Si detestano fino ai coltelli e alle pistole. I casi sono innumerevoli, anche nel Napoli

L’Atalanta spaccata è l’ultimo colpo alla perversa narrazione degli spogliatoi Mulino Bianco

Era appena passato mezzogiorno quando Garella uscì dallo spogliatoio con le ciabatte di plastica ai piedi, l’accappatoio bianco e azzurro malamente allacciato in vita. Prese a leggere un foglio scritto fronte-retro in stampatello, zeppo di cancellature a penna (poi lo fece anche De Napoli).

“Premesso che siamo professionisti seri e che nessuno questo può negarlo”

“La squadra è sempre stata unita e l’unico problema è il rapporto mai esistito con l’ allenatore”

“Nonostante questo gravissimo problema, la squadra ha risposto sul campo sempre con la massima professionalità”.

Era il comunicato ufficiale del Comitato di Liberazione da Ottavio Bianchi, maggio 1988. Una dichiarazione di guerra che concludeva la stagione delle tensioni. Esplodeva tutto il malanimo dello scudetto perso, con Maradona ufficialmente infortunato. Lo spogliatoio unito nella discordia. I giocatori che rompono il muro sacrale della camera caritatis per marciare tutti insieme come operai di Danzica contro il tecnico.

A Gasperini non toccherà. Ha già imboccato il tunnel dei “vocali” su Whatsapp, con la cronaca del disfacimento eventuale raccontato dagli “introdotti”, i beninformati, terze generazioni di cugini che conoscono l’autista del massaggiatore del Papu. Vincono a Liverpool e soffia il vento dell’ammutinamento, dove l’abbiamo già sentita questa?

Ma i giornali continuano a cantare la canzone dell’armonia, anche – e soprattutto – quando si rompe. È una retorica inscalfibile che attraversa le ere del pallone, non ha aderenze con la realtà: il miracolo del gruppo, la squadra-famiglia, l’unità di intenti. Una mistificazione, un tic capace di accreditare il pallone di valori morali superiori. Una narrazione perversa. Come se non fosse un lavoro di gruppo sporco come – se non più di – altri, con dei risultati da raggiungere anche a costo di accoltellarsi. E il coltello non è una metafora. Lo racconta Mihajlovic nella sua autobiografia, alla Lazio tra Simeone e Fernando Couto stava finendo malissimo:

“Uno aveva preso delle forbici, l’altro un coltello. Se non li avessimo separati, si sarebbero ammazzati”.

Questa riscrittura romantica delle dinamiche interne ad una squadra di calcio coi toni dei film col lieto fine – quelli col discorso motivazionale tipo Al Pacino che cambia le sorti della partita/campionato/vita delle persone – ha prodotto uno scollamento dal mondo reale: proiettiamo i nostri atteggiamenti del calcetto del lunedì sera su professionisti milionari che battono moneta a sé. Aziende personali costrette a fare impresa comune.

L’ha detto bene Allegri, e l’ha ribadito appena tre giorni fa Gattuso:

“Adesso stanno sempre con i telefonini in mano”

Tutti incuffiati, a farsi le proprie colonne sonore prima di entrare in campo e scoprire che il loro destino è legato a quello degli altri. Vincendo, molto spesso, pure odiandosi a morte. La rivolta del Napoli contro Bianchi era, appunto, una manifestazione d’unità, a suo modo.

L’Italia ha vinto due Mondiali arroccandosi contro il nemico comune: la stampa, l’opinione pubblica, il governo mondiale del calcio. Bearzot e Lippi ci sguazzavano. Guardiola, in un celebre discorso ripreso da All Or Nothing, dice alla squadra “Odiatemi”, se serve a vincere odiatemi.

Velasco teorizzava la squadra “fatta di diversità che si integrano”. Che non è uno stato naturale, magari ci si arriva se ci lavori. Klopp, quando ancora allenava il Mainz, portò i suoi per cinque giorni in ritiro in Scandinavia, senza cibo. Voleva insegnare loro la sopravvivenza.

La Roma di García e il Napoli di Benitez facevano rafting. I calciatori del Betis Siviglia andarono a fare surf in Portogallo. Joaquin Valdes, psicologo della Nazionale spagnola, suggerì a Luis Enrique l’escape room. Emery all’Arsenal scelse il paintball. Le vie del team building sono infinite.

L’ammutinamento più o meno silenzioso dell’Atalanta arriva di sorpresa proprio perché i segnali erano finiti sotto uno strato limaccioso di “favola“. Castagne, andando via, aveva già aperto una crepa sull’idillio della Dea. Ed è del tutto credibile che non tutti vadano sempre d’accordo con un tecnico egomaniaco e notoriamente non simpaticissimo come Gasperini. Ma invece no: sono anni che celebriamo – tutti – il mito di un puzzle perfetto isolato dal mondo esterno: la caverna di Platone, quasi.

Quando poi gli spifferi si fanno vento, allora viene giù tutto in un attimo. Lo “spogliatoio spaccato” è una contro-narrazione, ma fa parte dello stesso filone. Il gruppo comincia a raccontarsi per “clan” su base etnica: gli argentini, i brasiliani, i colombiani come nel caso dell’Atalanta. I sudamericani, in genere, e poi gli slavi. C’è – ad un certo punto c’è sempre – un’alzata di mani, un pugno, una rissa. Nel calcio si dice “attaccare al muro”: la storia è piena di gente appesa alle pareti da compagni un attimo prima cantati come fratelli di sangue.

Ma il punto è che, al netto di tutta questa fuffa, si vince o si perde lo stesso. La Lazio che vince il suo primo scudetto il 12 maggio del 74 – il giorno del sì referendario al divorzio – quella di Chinaglia, andava in ritiro con le pistole, e costruì le sue vittorie sulla rivalità tra due gruppi distinti, che avevano spogliatoi separati, che a mensa sedevano in tavoli diversi, e che in partitella si spaccavano le gambe.

Nell’Inter di Helenio Herrera c’era il clan di Mazzola, il clan di Corso, Picchi che si permetteva di correggere in campo gli errori del Mago, e Facchetti a fare il santino mediatico, esempio di correttezza e moralità.

The Last Dance è il racconto dei Bulls di Michael Jordan ma soprattutto delle vittorie cresciute sull’ostilità, il bullismo, i nervi tesi e i protagonismi. La cattiveria nello sport – e figurarsi quando lo sport è un lavoro – è un fertilizzante, altro che la melassa del Mulino Bianco.

Persino Sarri ha vinto lo scudetto con la peggiore stampa della storia bianconera: uno spogliatoio senza colle particolari, con le motivazioni scadute, e i giocatori ognun per sé. A dispetto dell’immagine riflessa che se ne voleva dare, uno specchio del calcio professionistico: pagati, strapagati per fare un lavoro. E basta. Il resto è una depravazione dei media.

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