A Sette: «Avevo un padre poliziotto ma non severo. Ero agli arresti domiciliari da appena nato. Non mi truccavo, mi dipingevo la faccia. Ho dovuto rompere il barattolo dove ero rinchiuso»

Su Sette Walter Veltroni intervista Renato Zero, fresco di compleanno: 80 anni e una carriera iniziata negli anni Settanta. Per l’occasione ha pubblicato tre album inediti. Ne parla come di un vaccino alla solitudine da pandemia.
«Ho sentito enormemente questo distacco, ho bisogno del rapporto diretto con le persone, siano il tassista con cui verseggio in romanesco o i ragazzi che mi indicano e salutano, a Primavalle come ai Parioli. Però il fatto di poter raggiungere gli altri attraverso la musica e attraverso una testimonianza come quella di Zero 70 mi mette nella condizione di interpretare questo tempo e di parlare con i mei amici sparsi ovunque. Grazie a questi tre album mi sono sentito in qualche modo vaccinato».
Zero parla anche dell’omosessualità.
«Abbiamo sempre dato troppa responsabilità al sesso. Lo abbiamo incoronato padrone di noi stessi, del nostro futuro, passato, presente, di una logica di assegnazione anagrafica, che poi spesso viene tradita da una scelta che è spontanea. Anch’essa naturale. Molti dicono che l’omosessualità sia una malattia, o uscire dai binari. Non credo sia né l’una, né l’altra cosa: sono l’uomo o la donna che sentono diversamente certe chiamate e reagiscono diversamente a certi accostamenti. Il sesso è importante e ha una sua dinamica. Se non ha più la complicità della preparazione, dei preliminari, di una liturgia sentimentale accurata diventa talmente sterile da essere quasi fastidioso. Diventa pura ginnastica».
«Questo Dio me lo descrissero come un castigamatti, uno che mi avrebbe punito se solo avessi starnutito. Questo mi ha procurato una certa occlusione della vita. Finché non me ne sono liberato andando a cercarlo io, da solo, questo Dio e scoprendo che era un amico, che mi sarei potuto fidare. Aver avuto tre sacerdoti in famiglia, aggiungeva incombenza sulla mia testa. Per di più andavo a scuola a Trinità dei Monti dalle suore francesi del Sacro Cuore… Avevo addosso questa camicia di forza abbastanza costringente. Avevo pure un padre poliziotto. Insomma ero agli arresti domiciliari, da appena nato. Ho dovuto piano piano sfasciarmi. Io volevo camminare con le mie gambe. E come reagente a questa condizione frustrante, cominciai a prendere confidenza con il beauty case, con le paillettes, con i fondotinta, con la pittura. Non è che mi truccassi, mi dipingevo la faccia. Io cercavo i colori, cercavo lo sfolgorare, cercavo la maniera di riemergere da questo fango, dalle costrizioni di una opacità che non era sopportabile a tredici, quattordici anni. Era troppo serrato, il mio barattolo».
Anche l’esperienza scolastica non è stata delle più tenere.
«Il maestro mi ripeteva solo che ridevo, che ero un discolo, “Che cavolo ridi?”. E io gli rispondevo: “Maestro lei evidentemente non è felice, non è contento della sua esistenza. Perché dire a me, a quest’età, che questo riso è superfluo e addirittura fastidioso, vuol dire che lei non sta bene”. Ero sotto il mirino di questi insegnanti, tant’è che dopo la terza media io scelsi la scuola di cinema di via Achille Papa, volevo fare l’operatore».
E torna il barattolo troppo stretto.
«Non mi sono preso per il culo né ho preso per il culo nessuno. E questo credo che sia un risultato eccezionale. Ho dovuto all’inizio infrangere qualsiasi barriera e regola, se volevo respirare, perché non mi lasciavano respirare, mi chiudevano in questo barattolo. Questo barattolo lo chiudevano in tanti, ho dovuto farlo in mille pezzi. Era la condizione per vivere la mia vita».
Se tu dovessi scegliere un giorno di quando eri bambino? Gli chiede Veltroni. Risponde:
«Io di quando ero bambino non prenderei nessun giorno. Perché ero solo, perché quella Roma lì, di via Ripetta, era una città piena di vecchi. Lo dico con tenerezza, perché mi hanno cresciuto loro e se amo i vecchi così tanto è perché io li ho condivisi da quando ero piccolo. Intorno a casa tu incontravi gli Odescalchi, gli Sforza, la crema della aristocrazia romana, e poi molti sacerdoti perché il Vaticano era ovunque. Se volevi vedere i bambini dovevi andare in borgata, in periferia. Infatti quando l’ospedale San Giacomo comprò il nostro palazzo noi, sfrattati, siamo andati a finire alla Montagnola. Lì ho conosciuto i bambini, ho capito che si nasceva bambini e non vecchi. Non ero più un’eccezione. No i bambini esistevano, lì c’erano, eccome. Ho condiviso le regole della borgata, ho imparato ad amare la povertà, l’esempio di chi non spreca nulla. Noi mangiavamo le patate sei volte a settimana: una volta era un gateau, un’altra volta era pasta e patate, un’altra volta erano patate fritte. Insomma tu magnavi sempre patate e non te ne accorgevi perché nonna le mascherava tutte le volte in una forma diversa. Voglio dire con questo che dico grazie a quella Roma. Forse statica, con il respiro affannoso, greve. Ma ringrazio pure la spudoratezza della periferia. Questa spontaneità e questo dramma vissuti con allegria».
Racconta della sua infanzia («Vivevamo in dodici nella casa»), e di quando da ragazzo andava al Piper.
«Ero un po’ diverso da quello degli altri. Mi preparavo un fagottello con tutte le mie stravaganze, mi nascondevo in un portone di via Po dove mi cambiavo e poi andavo al Piper. Quando finiva tutto mi rimettevo nello stesso portoncino, tornavo in borghese e andavo a casa. Un giorno mio padre che era un poliziotto – tutt’altro che severo, era un grande padre – mi disse: “Senti, che hai dentro quel sacco?”. Io risposi agitato: “Niente, papà”. “Fammi vedere…. Tu esci con queste cose, poi ti vesti e poi ti devi cambiare, non va bene. Da domani esci direttamente vestito così”. Quello era mio padre. Considera che in quel palazzo c’erano centotrentasei poliziotti, perché era un alloggio della polizia di Stato. Quando uscivo da quel portone, con la benedizione di mio padre ad indossare la mia seconda pelle, questi da dietro le tapparelle quello che non potevano dire! Quella è la scuola della vita. Io ho lasciato quella ufficiale per affrontare un’altra scuola dove la laurea è faticosa. Ma quando ne prendi una, le hai prese tutte».