Alle prime difficoltà, i giocatori tornano a quelle convinzioni. Le parole di Gattuso («non abbiamo fatto quel che avevamo preparato») ne sono la conferma.
Gattuso ha capito
Nell’intervista postpartita rilasciata a Sky, l’allenatore del Napoli Gennaro Gattuso ha fatto una disamina molto interessante della partita persa 3-1 contro l’Hellas Verona. Secondo Gattuso, il Napoli «non ha fatto vedere ciò che aveva preparato in settimana, soprattutto nel secondo tempo»; nella fattispecie, «i miei giocatori potevano andare sempre in verticale e non ci sono mai andati. Abbiamo perso palla in uscita e abbiamo subito i gol, basta guardarli. Il Verona si alimenta di contatto fisico e se giochi il loro calcio, giocano sull’entusiasmo». Mentre Gattuso parlava, sugli schermi – il nostro, il suo, quello nello studio di Sky – scorrevano le immagini delle reti subite dal Napoli.
Fin quando non è stato stuzzicato a utilizzare la (solita) retorica sul veleno, Gattuso ha quindi dato una lettura complessa, e anche centrata, della partita. Una lettura di campo che, in qualche modo, racconta quali sono i veri problemi del Napoli. Problemi storici, problemi tattici che diventano mentali: i giocatori azzurri possono anche iniziare una partita giocando in un certo modo (come spiegheremo dopo); quando però le cose iniziano ad andare male, o anche semplicemente non bene, gli stessi giocatori finiscono per soffrire questa condizione, e allora si rifugiano nella loro comfort zone. Ovvero nel classico gioco di possesso, di costruzione bassa, nella risalita lenta del campo. Una strategia che, soprattutto contro squadre come il Verona, deve essere attuata in maniera perfetta per risultare efficace. E ieri, al Bentegodi, è evidente che non sia andata proprio così. Vediamo perché.
Il gol di Lozano
Un gol realizzato al nono secondo di gioco può essere considerato tattico? Forse no, ma il lancio lungo di Demme e ciccato da Dimarco ha espresso, dopo pochi istanti, quello che era il piano partita del Napoli. Ovvero: bypassare la pressione a tutto campo dei giocatori del Verona con palloni scodellati in avanti, negli spazi (inevitabilmente) non presidiati da una squadra che accorcia tantissimo in fase difensiva.
Un caso, certo. O forse no.
Il Verona non ha fatto altro che essere sé stesso: ha ricercato le marcature a uomo a tutto campo, ha esasperato quel «contatto fisico» di cui ha parlato giustamente Gattuso, e infatti ha sofferto il Napoli fin quando gli azzurri hanno provato ad allungare il loro campo offensivo. Alla mezz’ora, la squadra azzurra aveva costruito 2 tiri in porta (gli unici della sua partita) e altre 5 conclusioni. Dopo, nel secondo tempo, la squadra di Gattuso ha cambiato approccio tattico. Così ha finito per consegnarsi letteralmente all’avversario, per giocare nel modo in cui l’avversario voleva.
I numeri confermano questa lettura: nel primo tempo, il dato del possesso palla è stato favorevole al Verona (56,9%), mentre nella ripresa risulta ribaltato (60% per il Napoli). La cifra più impressionante, però, è quella dei passaggi corti: nel primo tempo, la squadra di Gattuso ne ha messi insieme 196; nella ripresa, sono stati 262. Cosa vuol dire tutto questo? Che il Napoli ha iniziato la partita giocando in un certo modo, e poi, nella ripresa, ha cambiato strategia. Se vogliamo dare per vera la versione di Gattuso, i giocatori l’hanno fatto in maniera arbitraria, o per meglio dire inconscia. Cioè, avevano istruzioni di risalire il campo velocemente, appoggiandosi a Petagna e/o lanciando Lozano in verticale, ma poi hanno ripreso a farlo con un possesso sincopato, più sofisticato e orizzontale, inevitabilmente più lento.
Il Napoli nel primo tempo, in due elementi multimediali: in alto, vediamo un momento in cui il Verona esaspera le marcature a uomo e porta sei uomini nella metà campo della squadra di Gattuso. Sopra, invece, vediamo un video di un lancio lungo di Koulibaly in una situazione simile. Il difensore senegalese trova Lozano in profondità, ma voi concentratevi sul vuoto a centrocampo mentre il pallone viaggia verso il messicano. Il Verona, pur di prendere in alto i suoi avversari, ha volutamente lasciato sguarniti il centrocampo e lo spazio dietro i suoi difensori. Il Napoli aveva il compito/dovere di sfruttare quelle praterie. Ma l’ha fatto solo nel primo tempo.
In effetti, come si vede anche da questo video, il Napoli nel primo tempo è parso diverso dal solito. Più simile alla squadra vista contro la Fiorentina, che a quella storica a cui siamo abituati. Non solo per la costante ricerca della verticalità, ma anche per altri aspetti. Primo tra tutti: la posizione di Lorenzo Insigne. Nel primo tempo, il capitano del Napoli si è mosso (molto) per assecondare bene le richieste della sua squadra, la necessità di aumentare il numero di giocatori in zona palla, in tutte le fasi di gioco – l’unico modo possibile per poter praticare un gioco diretto, veloce. Nella ripresa, invece, Insigne ha ripreso a zampettare nella sua comfort zone, a ricevere il pallone nel mezzo spazio di centrosinistra, al limite dell’area avversaria, per poter fare regia offensiva.
In alto, tutti i palloni giocati da Insigne tra il15esimo e il 30esimo minuto del primo tempo. In basso, i suoi tocchi nel primo quarto d’ora della ripresa, prima di essere sostituito.
Ora, è ovvio che Insigne c’entra fino a un certo punto. O meglio: la sua zona di gioco e la sua interpretazione della gara sono variate nel momento in cui lui e la squadra hanno modificato il loro approccio. Il punto è che però questa trasformazione in corsa sembra essere avvenuta in maniera spontanea, endemica viene da dire. E qui torniamo al punto fondamentale sollevato da Gattuso nel postpartita: se il Napoli ha preparato la gara in un certo modo, perché a un certo punto si è ribellato al piano partita predisposto dal suo allenatore?
Come il Napoli può battere il Verona
Le intenzioni iniziali di Gattuso erano semplici. Per non dire elementari. Attraverso lo strumento del lancio lungo, del gioco diretto e verticale, il Napoli avrebbe dovuto evitare le già citate marcature a uomo del Verona; avrebbe dovuto compensare il gap fisico e di intensità tattica con un altro tipo di sollecitazione, quella che viene esercitata dal servizio negli spazi, a cercare la profondità, per sfruttare la velocità di Lozano e/o la tecnica dei singoli nella gestione delle seconde palle – dopo l’eventuale respinta della difesa. Era il modo in cui il Napoli poteva battere il Verona-di-Juric, una squadra brand che pratica un calcio riconosciuto e riconoscibile, che non cambia mai nel nome dell’avversario.
In un altro momento del primo tempo, vediamo come il Verona crei dei veri e propri duelli individuali a tutto campo, in base alla posizione degli avversari, non del pallone.
Questo tipo di gioco, però, richiede una predisposizione di un certo tipo. Non tanto e non solo al rinculo in fase difensiva, il Napoli non soffre da questo punto di vista, anzi tutti i giocatori nella rosa di Gattuso, a cominciare dagli attaccanti, sono molto generosi nei ripiegamenti, anche profondi, quando devono rientrare nella propria metà campo. La predisposizione di cui parliamo è quella al disordine anche solo apparente, ovvero a una situazione in cui azioni difensive e offensive si susseguono velocemente, e allora gli equilibri tattici sono necessariamente più instabili.
Il Napoli ha iniziato a patire questi suoi limiti tecnici, tattici e psicologici alla mezz’ora del primo tempo, quando il Verona ha trovato le misure in campo e ha iniziato a muoversi in maniera ordinata e coordinata, in attacco e in difesa. La squadra di Gattuso ha iniziato a sentirsi sotto pressione, a sentirsi troppo spezzata in due tronconi a ogni lancio lungo. E allora si è rifugiata nella costruzione da dietro, piuttosto che continuare a insistere in quella direzione. È successo l’esatto contrario rispetto a una settimana fa, quando durante Napoli-Fiorentina tutto era girato bene – episodi compresi – e allora gli azzurri hanno insistito nella direzione tracciata dall’allenatore.
A partire dalla mezz’ora, dicevamo, il Verona ha avuto gioco facile nell’alzare la pressione del proprio pressing. Trovare il gol del pareggio, in quella situazione, è stato facile per gli uomini di Juric. Anzi, era solo una questione di tempo. Tutto ciò ha dimostrato una volta di più come il Napoli inizi a pagare dazio mentale e tattico, a smarrirsi quando non sente più di condurre la partita dal punto di vista tattico.
Secondo Gattuso, questo gol – come gli altri subiti ieri – nasce da «un errore in uscita quando invece avevamo la possibilità di andare in verticale, e non l’abbiamo fatto».
Come si vede dal video appena sopra, il gol di Barak si origina da un passaggio orizzontale sbagliato di Bakayoko – e poi da una sua pessima copertura nei pressi dell’area di rigore. Anche la terza rete del Verona nascerà da un errore in appoggio durante la fase di costruzione, stavolta commesso da Dries Martens. Quando poi, nel secondo tempo, il Napoli è riuscito ad arrivare nella metà campo del Verona con le sue azioni manovrate, si trovava di fronte una muraglia umana difficilmente superabile.
Con Insigne, ma anche senza Insigne: nella ripresa il Napoli non ha cambiato modo di attaccare, si è intestardito nel gioco di accerchiamento. Solo che serve a poco accerchiare una difesa così nutrita, così compatta nella propria area.
Sono queste le azioni che evidenziano il vero problema del Napoli: in molti sostengono che la squadra di Gattuso si esprima meglio quando può impostare ogni azione dal basso, uscendo col pallone pulito dalla propria metà campo. Ma quali sarebbero, a oggi, i giocatori del Napoli adatti a questo tipo di gioco? Quanti riescono a rendere davvero veloce una manovra offensiva basata su molti tocchi?
Facciamo un censimento veloce in questo senso: Bakayoko e Demme non sono di certo calciatori di possesso, esattamente come Meret; in questo periodo Zielinski viene schierato come sottopunta, non può o non deve abbassarsi e agire come costruttore di gioco, perderebbe tutta la sua pericolosità in fase d’attacco; tutti i terzini in rosa (esclusi, forse, Mário Rui e l’ormai inutilizzato Ghoulam) e tutti i centrali in rosa non hanno grande abilità nel trovare i compagni con tocchi dietro le linee di pressing degli avversari; Osimhen, Lozano e Petagna sono elementi con caratteristiche fisiche e tattiche completamente diverse.
Restano Ospina, Fabián Ruiz, Insigne, Dries Mertens, forse Politano e Lobotka. Tra questi, solo Insigne era in campo alla mezz’ora del primo tempo di Verona-Napoli, quando la squadra di Gattuso ha creduto che esasperare la ricerca del possesso palla fosse la strategia tattica migliore da applicare. E qui torniamo alla domanda di prima, rimasta ancora inevasa e che ora diventa pure più inquietante, se possibile: se il Napoli ha preparato la gara in un certo modo, perché a un certo punto si è ribellato al piano partita predisposto dal suo allenatore?
Il Napoli non si è mai sganciato da Sarri
È evidente come il Napoli sia una squadra ancora legata al passato. All’idea che l’unico modo per poter condurre le partite dal punto di vista tattico sia passare attraverso la gestione del pallone. Quando invece sono proprio i dati di Verona-Napoli a dirci il contrario: alla mezz’ora del primo tempo, la squadra di Juric risultava avere un possesso palla pari al 57%, eppure non aveva mai tirato in porta. Neanche una volta.
Nella mente di alcuni calciatori azzurri sono ancora latenti le convinzioni e le lezioni inculcate loro da Maurizio Sarri – così come in quelle di una parte dei tifosi e soprattutto della dirigenza, infatti ricorderete le parole di De Laurentiis quando fu assunto Gattuso, i suoi continui riferimenti alla «Grande Bellezza». Il punto è che quelle convinzioni, quelle lezioni e quell’approccio tattico sono anacronistici, per questo Napoli. Perché Sarri, da bravissimo allenatore qual è, non impostò la squadra in quel modo solo perché gli piaceva o perché sapeva farlo. Ma perché aveva i giocatori giusti – e migliori – per provarci. E per riuscirci. Parliamo di Hysaj, Koulibaly, Zielinski, Insigne più Maksimovic e Mertens, che ieri erano in campo a Verona. Ma anche, e soprattutto, di Reina, Albiol, Jorginho, Hamsik.
Oggi alcuni di quei calciatori non ci sono più, per un motivo o per un altro. E invece il Napoli non ha ancora voltato pagina: lo stesso Gattuso ci è stato venduto e presentato – suo malgrado – come un tecnico che avrebbe dovuto ripristinare quel sistema di gioco, quella cultura tattica, e invece non ha potuto farlo. In realtà avrebbe mai potuto riuscirci, perché la rosa che ha avuto e ha a disposizione richiede qualcosa di diverso. E il fatto che lui stesso, ieri, abbia ammesso di aver preparato la partita «per giocare in verticale» certifica il suo tentativo di sganciarsi dal passato. Mentre il Napoli, almeno in parte, non ci è mai riuscito.
Conclusioni
Gattuso, ovviamente, fa parte di coloro che hanno delle colpe. Un tecnico che ha delle idee strutturate, qualunque esse siano, ha il dovere di imporle alla propria squadra. Se i giocatori non lo seguono, c’è qualcosa che non va a livello di rapporti con lo spogliatoio, quantomeno dal punto di vista tecnico-tattico. Ma in realtà qualsiasi allenatore può incidere poco se la sua squadra è stata costruita in maniera caotica, illogica. Se è il frutto di un mercato che ha rispettato le esigenze numeriche, ma ha trascurato quelle tattiche – e infatti il Napoli ha tantissimi giocatori molto forti, ma sono tutti diversi tra loro, fanno fatica ad amalgamarsi in maniera coerente in qualsiasi sistema di gioco.
L’unica soluzione sarebbe cercare di cambiare fisionomia e approccio tattico per ogni partita, ma è evidente che alcuni elementi-chiave abbiano bisogno di rifugiarsi in alcune certezze, sempre le stesse, per poter giocare con serenità, tranquillità. Per poter rendere. Lo fanno da sempre, lo fanno sempre. Lo fanno anche oggi che non è più possibile. È così che è fallito il progetto-Ancelotti, ed è per lo stesso motivo che sta fallendo il progetto-Gattuso. Sono fallite la rivoluzione e poi anche la restaurazione. Messa così, è evidente che i problemi vadano oltre l’allenatore di turno. Il fatto è che il Napoli del presente crede di essere ancora nel passato, un passato che non esiste più, e allora ha finito per dimenticare la prima regola per fare bene le cose: lavorare volgendo lo sguardo al futuro.