In tempi di filosofi della tattica e inventori del nulla, mi piace ricordare gli allenatori dei miei tempi, i più semplici e genuini
In questi tempi di allenatori milionari, di scienziati del pallone con conti in banca da Paperoni, di filosofi della tattica e inventori del nulla, mi piace ricordare gli allenatori dei miei tempi, i più semplici e genuini, i colbacco-muniti, i sergenti di ferro, i maledetti toscani, i ginnasiarchi e i più spassosi imbonitori, i maghi e gli HH, i rombo-profeti e i professori-Scoglio.
E vogliamo allora parlare di Oronzo Pugliese? Oronzo, Oronzo, come sei str … ano. Fu il titolo malizioso di un giornale.
L’uomo veniva da Turi, un presepe di case bianche e scrostate, di vigne e uliveti nel profondo sud della Puglia. Figlio di Matteo e di Francesca, fratello di cinque fratelli, un campo da coltivare. Apparve nel calcio e disse:”Io non sono stato mai un morto di fame. Sono venuto al mondo con i pantaloni e mi sono fatti dieci pantaloni facendo il giocatore e l’allenatore”.
Da centravanti di ventura giocò ad Acquaviva delle Fonti, Molfetta, Benevento, Potenza. Allenò dal 1945 al 1979 in undici squadre.
Cominciò ad allenare a Lentini in Sicilia e la squadra si chiamava Leonzio e lui disse “Io un leonzio mi sento”. Allenò Foggia, Bari, Roma, Bologna e Fiorentina. Quando partì per Roma disse: “Sentirete parlare di me, io vado all’Olimpo”. Quando arrivò a Bologna disse: “Ho passato la linea gotica e l’ho passata con i miei mezzi. A Milano non ci andrei mai perché a Milano la nebbia mi mangerebbe le orecchie”. A Milano c’era il Mago Herrera, ma lui, Oronzo Pugliese, fu orgogliosamente il Mago di Turi. “Io non sono l’Herrera del Sud. Semmai Herrera è il Pugliese del nord”.
Aveva le sue idee: “Ho sempre preferito il gioco scarno, io ai passaggetti, alle triangolazioni, ai ghibilori non ci ho mai creduto. È un gioco rachitico. Le mie squadre devono assimilare il mio carattere di battagliamento”.
Correva per tutto il bordo del campo, urlava e correva, gesticolava e correva, la faccia rubizza, la calvizie precoce e sempre in giacca e cravatta come ogni buon contadino arrivato in città.
Disse: “Il calcio è vita, è vitalità, è vitalizio”. Aggiunse: “Mi trovano torrentuoso nel parlare, ma io sono un generosito”.
Smise di allenare che già Herrera aveva smesso. E Pugliese non fu più Pugliese senza Herrera. Con Helenio aveva acceso una rivalità memorabile.
Negli ultimi anni disse: “Io resto alla finestra, oggi tutti vogliono gli allenatori che fiorettano, questi vogliono, perché ora per il calcio bisogna andare all’università col volume enciclopedico, ahooo quando si prendono cinque o sei lezioni teoletiche il calcio è finito”.
Tornò a Turi dove i balconi erano verniciati di giallo e di rosso dei tempi in cui lui andò nella capitale. Stava su una sedia perché aveva subito il colpo traditore dell’ictus. Morì l’11 marzo 1990.
E vogliamo parlare di Carlo Mazzone? “Magara”, come direbbe lui. Un trasteverino di sana e robusta costituzione. Il padre aveva un’autorimessa, la madre in tempo di guerra comprava una bistecca solo per lui perché giocava a pallone nelle giovanili della Roma e doveva essere forte. Due partite in serie A con la squadra giallorossa. Tesserato per la Spal senza giocare una sola partita. Calci e miracoli da difensore di stazza e ramazza dell’area di rigore nell’Ascoli, 219 partite in nove anni e 11 gol.
All’età giusta si consegnò al suo lungo destino di allenatore, 1278 volte in panchina (797 in serie A) dal 1968 al 2006. Assunto, esonerato, richiamato ad Ascoli, Firenze, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, quattro partite appena col Napoli, Perugia, Brescia. Degradato ad allenatore di provincia, ci soffrì e gli mancò la fortuna necessaria per smentire tutti.
Ebbe sempre una spina nel cuore. La Roma. Ci stette troppo poco, non andò più su del quinto posto e rimase schiacciato dalla leggenda di Liedholm che aveva vinto lo scudetto col divino Falcao.
Si passava la mano sulla fronte per aggiustarsi i capelli che non aveva. Era tosto e puro. “Io ho fatto di tutto: zona, zona mista, difesa a tre, a quattro, con il libero, senza il libero, e via così”. Pensò sempre alla patria ingrata: “Roma è difficile e maliarda. Vizia i calciatori e mangia gli allenatori”.
Una quercia d’uomo col cuore gentile. Carletto Mazzone che non fu mai l’ottavo re di Roma.