La missione consiste nell’annientare una squadra del controspionaggio del sud Italia che sta attraversando una fase complicata, di quelle che precedono gli smantellamenti
Viene avanti il compagno Pandev, l’impermeabile appena dismesso, lo sguardo vivo ma sommesso da oltrecortina, viene avanti lento il compagno Pandev. È un gatto nella notte, è una spia spuntata dalla nebbia di Berlino, è un partigiano, uno spazzino alle prime luci dell’alba, un trasportatore del latte, un fattorino in bicicletta che sulle strade ancora umide consegna i giornali. Non si da dove arrivi, non ha età il compagno Pandev, ha dei trascorsi come tutti, ma nessuno li ricorda, tantomeno lui. È onesto il compagno Pandev, mantiene un discreto talento: se impari a nasconderti, a sparire e poi a saltare fuori da un cespuglio a ronda passata, se sai come si superi un confine, come si tagli un filo spinato, hai la giusta paura ma anche, costante, la necessaria lucidità. All’ora di cena avanza il compagno Pandev. È sabato ma ha un compito da assolvere, non ci sono orari che tengano, prefestivi che contino. Non piove ma potrebbe, nella città in cui si trova il compagno Pandev piove sovente, ma non c’è nulla da temere dall’acqua che scende, basta saper sgusciare, scivolare come quando si hanno i pattini da bambini. In ogni caso non piove per ora ma il sereno è determinato (o meno) soltanto da ciò che farà il compagno Pandev.
Pandev, il compagno, è di rossoblu vestito come altri intorno a lui. Chi sono? Più o meno conosciuti, più o meno ignoti. Destinati a gravitare come piccole isole intorno all’isola Pandev, ad attendere il suo segnale, il suo comando. Il compagno Pandev ha specificato che la missione da compiere deve svolgersi allo stadio, che per comodità chiameremo Marassi e che in altri momenti, per disattenzione, potremo nominare Luigi Ferraris. “Ci vestiremo da Genoa” ha detto il compagno Pandev. Ha guardato gli altri è aggiunto: “Ricorderete, è la squadra del compagno Faber”. Pandev ha detto ai suoi di non assumere espressioni da romanzo russo, di togliersi – per favore – i cappotti, di indossare, senza temer vergogna, quegli indumenti chiamati calzoncini. Tutti sono pronti, il compagno Pandev li guida. La missione consiste nell’annientare una squadra del controspionaggio del sud Italia, composta da agenti che sono stati a lungo scaltri e determinati, ma che ora attraversano una fase complicata, come se vivessero una fase di transizione, tipo quelle che precedono gli smantellamenti. Ognuno di questi agenti è pervaso da un senso di perdita, sono disorientati e di conseguenza portati a commettere errori anche banali. “Prestate attenzione”, suggerisce il compagno Pandev.
Inizia quella che da questo istante chiameremo partita. Gli agenti che si trovano travestiti d’azzurro (colori di una squadra che per facilità chiameremo Napoli) pare abbiano intenzione di concentrarsi e di impedire al compagno Pandev di portare a termine la sua missione. Nei primi minuti della partita gli uomini del sud sembrano accorti e, addirittura, decisi. Ma il compagno Pandev sa che prima o poi si distrarranno e avverte: “Tutto deve compiersi entro la mezz’ora, state pronti”. Del resto, il compagno Pandev, ha lavorato un tempo per gli avversari di oggi, ne riconosce l’odore, ne sente la crisi, li guarda con antico affetto, ma solo per un istante.
Ed ecco che alcuni componenti del Napoli cominciano a muoversi con sufficienza, con leggerezza, come se fossero in campo da soli, come se ogni movimento non fosse decisivo, come se ogni attimo non contasse.
Ed ecco l’agente Maksimovic, uno dei più smarriti, oseremmo dire: perduti. Ecco la sua lentezza, il suo capo chino, guarda il pallone sui suoi piedi per timore d’inciamparci. Non volge lo sguardo intorno a sé, ha paura. Il suo unico scopo è quello di liberarsi della sfera il prima possibile. E così fa. La passa verso il centro del campo, ma non guarda, e coglie in controtempo il tedesco Demme, a quel punto uno degli agenti rossoblu è lestissimo a raccogliere la palla e a farla scorrere verso il compagno Pandev, che non perde tempo, controlla alla sua maniera e fa quello che in questo tipo di gioco chiamano gol.
Non ride, non esulta il compagno Pandev, sa che manca ancora qualcosa. Ci sono brividi, a un certo punto un azzurro, tal Petagna, colpisce la traversa. Il Napoli prende un filo di coraggio, ma il compagno Pandev pronuncia tre lettere: “Ora”. Il Genoa attua la tattica della pressione, ed ecco che gli uomini dell’Est cadono come birilli, come soldatini in trincea. Sbaglia cadendo l’agente Demme, scivola come sul ghiaccio l’agente scelto Zielinski, ed ecco che la palla arriva di nuovo al compagno Pandev che si infila, sguscia, fa una riverenza, non fa penitenza, non dà un bacio a chi vuoi tu e segna. La missione è compiuta.
Pandev guarda i suoi ragazzi e dice: “Da qui in poi: resistere, proveranno a reagire, tireranno, certo, ma niente di più. Teneteli fuori dai sedici metri”. Si guarda intorno di nuovo concentrato e ricomincia già pronto per un’altra missione. Le sue previsioni sono azzeccate, non accadrà nulla se non vaghi tentativi che non portano a nulla. Certo gli agenti del Napoli faranno un gol, ci risulta, con uno dei loro componenti minori, un certo Politano. Uno di quei personaggi che vivono a margine dei grandi romanzi. Politano ne Il commesso di Malamud, sarebbe al massimo una bottiglia di latte. In Underworld di DeLillo sarebbe un rifiuto biodegradabile. In 2666 di Bolaño non farebbe la sua comparsa nemmeno come fetta di limone da aggiungere a una bevanda scadente. Intanto il compagno Pandev ha rimesso l’impermeabile e chissà dov’è.