I centravanti prepotenti. Riva aveva la faccia scolpita, squadrata, di un eroe d’Omero. Pascutti piaceva a Pasolini
Il centrattacco. Il trionfatore e il martire del gol. Una figura mitica ai miei tempi prima che diventasse arretrato, di manovra, finto nueve e compagnia bella. Cantava il Quartetto Cetra: “Si chiama Spartaco e nella quinta B gioca centrattacco ogni giovedì, è meglio di Levratto, ogni tiro va nel sacco, oh, oh, oh, che centrattacco”.
Fremeva a Torino la squadra del biondo Giampiero. Alla fine degli anni Cinquanta, l’attacco affidato a un gigante gallese, John Charles, che nessuno mai prese lassù dove andava di testa, umano ascensore, a colpire la palla. Ai suoi piedi l’argentino di punta e di tacco, il geniaccio bislacco di Sivori. Il gigante e il bambino. Il gallese volante, il birichino argentino.
Chiamavano Bonimba l’altro asso dei gol prepotenti. A Cagliari, Milano, in bianconero a Torino, bombardiere rotondo, acrobatico, tendeva la gamba per la spaccata rischiosa. Carpiva la palla fiondandola in rete. In una giornata avversa, a Vicenza, si prese l’esagerata licenza di aggredire l’arbitro D’Agostini. Squalificato per nove giornate. Riprese col furore di prima. Spaccate e rovesciate. Un nano gigante, una faccia da jolly, un gran saltimbanco nello stadio plaudente. Segna, segna, Boninsegna.
A Roma arrivò nel 1959 l’argentino ritenuto di piede eccessivo. Manfredini detto Piedone. Fu l’inganno di una fotografia che all’arrivo di Pedro a Ciampino inquadrò in primo piano, da sotto la scaletta dell’aeroplano, i piedi del campione che apparvero enormi. Calzava appena il 42. Un argentino poco sudamericano, colpiva la palla da europeo. Nella Roma fu al centro di un attacco che era la fine del mondo con Lojacono e Orlando, Selmosson e Schiaffino.
Vive ancora nell’isola dei quattro mori Giggirriva. Nato per sfondare le reti, scrivevano i giornali. Ragazzo potente di assalti vibranti. Il cuore, la gamba oltre l’ostacolo, lo scatto imperioso, elegante, ardente la miccia.
Gianni Brera battezzò Rombo di Tuono quel legionario di Leggiuno, Gigi Riva, un metro e ottantuno. Una santabarbara accesa in ogni difesa. Andava a volo radente per colpire di testa il pallone invitante. Aveva nei piedi l’artiglieria devastante. Il cannoniere degli anni Sessanta. La faccia scolpita, squadrata, di un eroe d’Omero. Bello, virile, sincero. Giocò e vinse nell’isola degli antichi fenici. Felici fece i cagliaritani. Lo scudetto del piede mancino folgorante. In allenamento con un tiro potente spezzò un braccio al ragazzo Daniele Piroddi suo ardente tifoso.
L’omerico eroe scagliava fulmini e saette. Le sigarette, unico vizio accertato, non gli toglievano il fiato. Risorse da due gravi infortuni. In nazionale fece le spese degli interventi duri di un austriaco e di un portoghese. Fratture dei péroni.
È rimasto nell’isola sarda tutta la vita. Rifiutò la contropartita di richiami di gloria, Juve e Inter in alterna baldoria, di prebende maggiori, di onori sul continente delle squadre vincenti. A Cagliari conobbe la passione, la sua bionda Briseide. Amò la donna col furore dei gol, col cuore fedele, il premio finale di un grande guerriero.
Non era centrattacco, ma ala mancina, il friulano Pascutti, bolognese acquisito. Ebbe il plauso gradito di Pier Paolo Pasolini. Al poeta piaceva il pallone. La battaglia sul campo, il coraggio, l’emozione, i ragazzi che inseguivano la vita: il poker, le donne, la dura partita. Giocava Pier Paolo le sfide occasionali sui campetti locali. Ammirava su tutti l’eccessivo Pascutti, attaccante essenziale, risoluto, rissoso. Un ossesso d’atleta affine al poeta.
La madre bidella, il papà falegname. Ebbe il nome di un generale romano. Ezio. Da bambino, Pascutti dribblava gli abeti, correva tra i pini nella campagna udinese. Tutto destro, il piede mancino un inutile arnese. Un maestro avveduto costrinse il ragazzo friulano ad allenarsi di brutto perché infine parlasse il suo piede più muto. Lo tormentò con sguscianti palline. C’era penuria di ali mancine. Col sinistro adeguato Pascutti avrebbe sfondato.
A manca del campo di gioco, Ezio divenne un guerriero di fuoco. Così lo vide il poeta che scrisse la “pagella” migliore su un vecchio quaderno: “L’uomo nuovo del calcio, il calciatore moderno”. Pascutti di tutti i mancini incantò Pasolini.
Quindici anni fedele al Bologna, alla città felsinea offrì centotrenta gol e il cuore senza tirare un rigore. Amante del rischio, al fischio dell’arbitro era già in mischia. Incontenibile ala, combattente eccitato, sgomitato, inseguito, braccato, prevaleva di forza. La scorza friulana corazza di coraggio. In tuffo colpiva la palla di testa con giravolte improvvise. Il tiro, un fendente. A muso duro replicava alle insidie, al fallo cattivo, all’oltraggio del gioco massivo. Reagiva all’istante, pronto di mano, fulminante lo sguardo. Cinque volte operato al ginocchio sinistro massacrato negli scontri cruenti.
E un uccellino apparve tra gigli e viole nella stagione degli assi che rallegrò Firenze. Kurt Hamrin svedese tascabile di altezza risibile. Lo scatto invincibile, il fianco oscillante, rapidi i piedi, veloce la corsa di piccoli passi e la risorsa di un tiro pungente. Seminava avversari, scherzava i portieri, l’uccellino svedese che incantò Firenze.