Lentamente, i signori del calcio si stanno rendendo conto che nessuno ha affidato loro il governo della salute pubblica
Dovevamo intuirlo il giorno in cui la Lega di Serie A s’inventò il “jolly”. Quando con una mossa circense i presidenti giocolieri approvarono contemporaneamente il sacro Protocollo e la sua deroga, fulminando tempo spazio e logica: se la rosa è sterminata da un focolaio di Covid, ma in squadra ti restano 13 convocabili, va tutto bene, si gioca; una volta sola a stagione, però, puoi chiedere il rinvio. L’una tantum. Il principio fondatore dell’industria calcio italiana.
In quel momento tutta la seriosità mono-espressiva che il governo del pallone italiano pretendeva di sostenere pubblicamente s’afflosciò. A cascata ne sarebbe colata l’inverosimile sequela di corsi e ricorsi che ci ha portato fin qui, oggi, ad ammirare l’epifania di Lega e Federcalcio: “oh, il Protocollo non funziona più”.
E’ una forzatura, in verità. Perché, per quanto palese esso sia, è un concetto che i vertici del calcio faticano ad ammettere. Come in Good Bye Lenin!, il calcio vive in una bolla artefatta in cui vigono le sue regole, ignorando che fuori il muro è caduto, Juventus-Napoli ha fatto giurisprudenza, e accade – persino! – che lo Stato italiano faccia valere le sue leggi a dispetto delle intese privatistiche di 20 società sportive.
A leggere le rassegne stampa, l’indomani del rinvio ufficiale di Inter-Sassuolo, si avverte una frattura temporale: c’è un fuso orario che scontano anche i commentatori più accorti. Solo ora, a marzo, ci si accorge che il tanto decantato Protocollo (che ancora viene contrabbandato a garanzia di non si sa bene quale virtuosa gestione del contagio) non funziona, non serve, non se lo fila più nessuno.
Non ad ottobre, quando le Asl fermarono il Napoli in partenza per Torino. Non a dicembre, quando il terzo grado della giustizia sportiva sancì l’inevitabile primato delle autorità sanitarie. S’erano insospettiti un po’ in occasione di Lazio-Torino, pur resistendo nella trincea del principio. Lo scoprono ora, quando l’Ats di Milano (in Lombardia le Asl si chiamano così, grazie federalismo…) ha chiuso l’Inter per quattro positivi – e non i dieci protocollari – vietando la partita col Sassuolo. Spiegando che non conta tanto il numero dei contagiati quanto, in questo caso come in altri, l’«elevato rischio di circolazione di varianti virali più contagiose». Non si gioca una partita? E vabbé, viene prima la salute. A volte lo fanno, le Asl: ragionano per il collettivo interesse, e non solo per quattro tifosi e il benedetto “indotto” dell’industria calcio.
Ancora oggi siamo costretti a leggere che “il governo del pallone ha consegnato il campionato all’autorità sanitaria, anzi a una ventina di Asl” (questo è Crosetti, su Repubblica) come se non fosse fisiologica questa gerarchia delle cariche, in piena pandemia. Lo scarto, netto, tra uno stato di fatto sancito peraltro dai documenti e il sogno del calcio di autoregolarsi, di farsi repubblica indipendente, è un po’ inquietante.
E’ come se nelle settimane intercorse tra la sera di Juve-Napoli e la sentenza del Coni, tutto il baraccone si fosse raccontato una storia autocompiaciuta, come i bambini che sottovoce cantilenano la favoletta al buio per acquietarsi e prender sonno. Una auto-narrazione che ha convinto tutti di essere nel giusto. Che la DDR – per recuperare la metafora di Good Bye Lenin! – fosse ancora in piedi come il muro che separava le due Germanie. Una pantomima.
Pur sapendo la verità, e questo è il bello. Gravina, in un momento di lucidità, l’ha anche ammesso: il “codicillo” che ammette l’intervento dell’autorità sanitaria locale è contenuto in una comunicazione della stessa Lega. Nessuno s’è inventato niente. Quella che adesso viene dipinta come una postilla malevola, quasi un trojan, è in realtà una banalità del diritto: le leggi dello stato vengono prima di quelle del calcio, punto. Non è un appiglio da azzeccagarbugli. In ogni caso la Serie A è andata avanti combattendo una battaglia contro le regole che essa stessa s’è data. Solo che non se n’erano accorti. La chiusura del cerchio.
Ora, in una primavera di zone rosse e con uno scudetto sulla via dell’assegnazione, la Serie A è in piena fase di risveglio traumatico. Sta aprendo gli occhi a fatica, gli stanno spiegando chi è – no, non un’industria: un’associazione sgangherata di privati imprenditori – e dove si trova – nel pieno di una pandemia mondiale. Ma fa passi da gigante: ha capito che il suo Protocollo valeva come jolly. Per fine campionato potrebbe arrendersi all’idea che la Repubblica Indipendente del pallone è un’utopia.