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Vita da Bòllesan: un’infanzia difficile, il rugby, 164 punti di sutura, «l’avversario volevo violentarlo»

Genovese, da bambino conobbe la vita dei carruggi, vinse uno scudetto a Napoli, fu il primo rugbista ingaggiato dalla pubblicità

Vita da Bòllesan: un’infanzia difficile, il rugby, 164 punti di sutura, «l’avversario volevo violentarlo»

La scomparsa di Marco Bòllesan un grandissimo del rugby italiano. Genovese, non vinse mai lo scudetto nella sua terra. Lo vinse a Napoli con la Partenope, e poi a Brescia. Lo ricordiamo pubblicando stralci di quotidiani.

La strada del Foro Italico che porta allo stadio Olimpico di Roma è lastricata da un centinaio di targhe dedicate ai più importanti atleti italiani della storia: Tazio Nuvolari e Gino Bartali, Valentino Mazzola e Primo Carnera, Giacomo Agostini, Silvio Piola, Alberto Tomba. Ci sono anche dei genovesi: Bruno Arcari, Eraldo Pizzo. E Marco Bollesan. Che era un’icona dello sport e di Genova, un ambasciatore nel mondo. Quando glielo facevi notare, lui rispondeva burbero: “Belinate”. Perché i complimenti gli facevano venire l’orticaria, anche se nessuno come lui se li meritava. Un guerriero, un leone. Il Capitano. Una leggenda nel rugby e nella vita, generoso e indomito anche in questi ultimi anni difficili di malattia, che ha combattuto come faceva sul campo: aveva placcato pure il Coronavirus, l’estate scorsa.

Sotto quella pellaccia rammendata — “Ci sono più punti di sutura nel mio corpo (164, per la precisione) che nel tailleur di una bella signora”, se la rideva sotto i baffoni — batteva un cuore che sembrava non volersi fermare mai. Invece. Fra 3 mesi avrebbe compiuto 80 anni.

Amava il rugby più di ogni altra cosa: “Ho iniziato a giocarlo perché sapevo muovere le mani. E questo ha cambiato il mio destino”, raccontava. “La mia vita, a quel tempo, era un po’ selvaggia: piena di rabbia”. Un padre contrabbandiere e gigolò, una mamma complicata (“E’ stata la prima morfinomane d’Italia”). Lo ha cresciuto dalla nonna Miride, che adorava: così ha chiamato una delle due figlie, l’altra è Marella. (Massimo Calandri, Repubblica Genova)

Bòllesan, con l’accento sulla O e non sulla A, come avrebbero preteso le sue origini venete. Al di là dell’essere nato a Chioggia, però, Marco non ha avuto nulla a spartire con la terra del padre, se non mille battaglie in campo contro le sue squadre. Abbandonato dai genitori, fu cresciuto a Genova dalla nonna Miride. Già bambino conobbe la vita dei carruggi, il lavoro da garzone, le botte tra bande. «Per strada mi accorsi che ero un capobranco» avrebbe raccontato.

Leggenda vuole che tale Hill lo vide battersi e gli consigliò il rugby. Leggenda narra che, anche da rugbista affermato, amasse passeggiare per le strade poco sicure dell’Angiporto alla ricerca di qualche testa calda da abbattere, per sfogo. Sono tantissimi i racconti su Marco Bollesan. Di certo per lui il rugby fu un’occasione di riscatto sociale e con lui il rugby trovò l’essenza del combattimento. «Io avevo dentro di me un desiderio di rivalsa che mi dava un’aggressività massima, l’avversario volevo violentarlo, portargli via la palla a tutti i costi». Terza linea, flanker ma anche numero 8, viveva per il placcaggio, la percussione, il confronto.

Rientrato al Cus Genova, nel 1972-73 a Padova contro il Petrarca si prese la responsabilità di trasformare la meta che sarebbe valsa il titolo. Sbagliò il calcio ma come sempre ci mise la faccia. (Simone Battaggia, la Gazzetta dello sport)

È stato il primo rugbista ingaggiato dalla pubblicità: di un orologio (inglese, come il rugby) e di una schiuma da barba

Passati i 70 anni, si gettò in mare a Boccadasse per salvare le barche degli amici pescatori che una mareggiata stava portando via. Rischiò la pelle, se la cavò con un braccio rotto, ma nessuna barca andò perduta. (Domenico Calcagno, Corriere della Sera)

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