Nulla vinsero, ma ne avevano le qualità, mancarono le occasioni. Scoglio e Galeone passarono anche per Napoli
Allenatori matti e di ventura, sognatori, profeti, di quelli che parlavano col pallone, allenatori trigonometrici, fantasisti. Ne racconto al volo quattro di loro che si affacciarono negli anni Settanta. Nulla vinsero, ma ne avevano le qualità, gli mancarono le occasioni.
Franco Scoglio di Lipari è stato uno spettacolo nel suo genere. Laureato in pedagogia, si meritò il titolo di professore. Divideva il campo in zone calde e zone fredde. Diceva: “Una partita è come un’equazione. Si gioca su un campo lungo 120 metri e largo 60. Anche il pallone ha dimensioni fisse. Così, dire che nel calcio ci vuole fortuna è un insulto all’intelligenza”. A pranzo spiegava il suo calcio muovendo bicchieri, piatti e cucchiai.
Iniziò ad allenare a trent’anni, a Gioia Tauro. E allenò una diecina di squadre, spesso tornando dov’era stato esonerato. Diceva: “Gli allenatori vanno e vengono, Scoglio ritorna”. Si definiva “un allenatore di strada, un po’ prostituta, che si arrangia”. Aggiunse: “Sono un autodidatta. Sono Franco Scoglio”. E proclamò: “Io non faccio poesia, io verticalizzo”.
Il Genoa, che allenò per quattro anni, fine anni 80 e inizio anni 90, conquistando una volta la promozione in A e un’altra volta la salvezza, fu il suo grande amore. “Noi siamo il Genoa e chi non ne è convinto posi la borsa e si tolga le scarpe”. Un sognatore. Una volta disse: “Morirò parlando del Genoa”. E così fu, colto da un malore in diretta nello studio di un canale televisivo genovese mentre discuteva animatamente con Enrico Preziosi, presidente genoano. Era il 3 ottobre 2005 e aveva 64 anni. Stroncato da un infarto.
Lo incontrammo a Napoli, stagione 2002-03, sulla panchina azzurra in serie B, Toto Naldi presidente licenziò Franco Colomba dopo 15 partite e assunse Scoglio. Il tempo di tre vittorie, quattro pareggi, tre sconfitte e Naldi liquidò anche il Professore. Un personaggio straordinario, anche opinionista di calcio per l’emittente araba Al-Jazeera parlando in siciliano.
Gigione Maifredi, allegro bresciano di un metro e novanta, si inventò allenatore di calcio a trent’anni dopo essere stato un venditore di panettoni e champagne. Con le bollicine dette vita al calcio-champagne, ubriacante, spettacolare e d’attacco. L’Ospitaletto di Brescia fu il suo laboratorio calcistico. Trovò gloria a Bologna. Lo prese la Juventus di Montezemolo. Lottò per lo scudetto, la squadra colpì 28 pali e perse. “Sono troppo presuntuoso e me l’hanno fatta pagare”.
Portò la Juve a giocare al San Paolo contro il Napoli per la Supercoppa italiana (1 novembre 1990). Aveva con sè Tacconi, Roberto Baggio, Schillaci. Offrì praterie al Napoli e pagò dazio pesante: 1-5, doppiette di Careca e Silenzi, gol di Crippa.
Scomparve, riapparve, fece un giro in piccole squadre. Dimagrì di venti chili per le delusioni. Esonerato dovunque, anche dall’Albacete in Spagna e a Tunisi. Disse: “Forse ho potuto dare l’idea di sentirmi il braccio destro di Dio”.
Un impagabile spavaldo è stato Giovanni Galeone, napoletano classe 1941, figlio di un ingegnere dell’Ilva Bagnoli, imperatore a Pescara per sei anni, dal 1986 al 1992. Con una memorabile cavalcata portò la squadra abruzzese in serie A.
Bella faccia scura da uomo di mare con i capelli sempre mossi dal maestrale. Si definiva un edonista. Diceva: “Non sono Orazio, sono Catullo”. Ci incontravamo al ristorante Eriberto di Pescara. Andava per mare di notte, pescava granchi, una volta naufragò. Diceva: “Perché la mia squadra renda al massimo ho bisogno di essere felice, di avere la mia follia, il mio manicomio”. Smentì che andasse in panchina portandosi le poesie di Jacques Prévert. “E’ troppo noioso”. Amava l’opera lirica, una passione ereditata dalla madre.
Aveva la sua filosofia di allenatore: “Io non do ordini neanche al mio cane, gli parlo e cerco di farmi capire, figuriamoci se do ordini ai giocatori”. E alla fine disse: “Negli anni felici, nessuno giocò mai come il mio Pescara”. Profeta del 4-3-3. Avrebbe voluto allenare il Napoli di Maradona e pare che Diego lo volesse sulla panchina azzurra.
Capitò a Napoli nella stagione del disastro totale, quattro allenatori per retrocedere ignominiosamente. Galeone allenò gli azzurri per dieci partite, nessuna vittoria, tre pareggi, sette sconfitte. Arrivò dopo Mutti e Mazzone. Disse: “Sono stato presuntuoso credendo di potere arrivare dove Mazzone aveva fallito”.
Da sotto un colbacco spuntò Gustavo Giagnoni, sardo di Olbia che da ragazzo era stato in seminario. Aveva una selva di capelli ricci che imbiancarono sui campi di calcio. Del Torino fece una squadra col colbacco e i suoi gicatori furono i cosacchi del Po. Li portò a un punto dal vincere il campionato (1971-72) e aveva in squadra Castellini e Pulici, il poeta Claudio Sala, i tosti e puri Mozzini e Ferrini, Rampanti piccolo e ispirato, persino lo scapestrato Agroppi.
Memorabili i derby con la Juve. Una volta Morini dette un pugno a Rampanti e l’arbitro Monti non espulse il bianconero. Disse Giagnoni: “La Juve è la Fiat, e la Juve è tutto, cielo, terra, mari e Monti”. Il Torino gli rimase nel cuore. “Furono anni bellissimi. Facevamo paura alla Juve e i nostri tifosi misero la bandiera granata sulla statua di Emanuele Filiberto sotto gli occhi degli juventini furenti”.
Andò al Milan. “Il presidente Buticchi era con me, Rivera no. Lo misi fuori squadra e lui mi disse: l’anno prossimo mi compro il Milan. Così fu e il sottoscritto se ne andò da Milano”.
Andava in vacanza a Folgaria dove comprò una casa. Un giorno del 2018 sapemmo che sotto il colbacco e sui monti del Trentino il cuore granata di Gustavo Giagnoni non batteva più. Aveva 86 anni.
(28 – continua)