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“Nomadland”, un film sulla perdita

Da oggi si può vedere su Disney+ – quindi anche su Sky Q. È anche un documentario sulla fine del lavoro negli States

“Nomadland”, un film sulla perdita
Da oggi “Nomadland” si può vedere su Disney+ – quindi anche su Sky Q – : da ieri è nelle poche sale che hanno avuto l’ardire economico di aprire. Alla Notte degli Oscar ha vinto tre statuette: quella per la migliore attrice protagonista – Frances McDormand -, come miglior film e come migliore regista: alla 41enne cineasta cinese Chloé Zao. Venezia 77 non era stata da meno – miglior film – e al Golden Globe doppietta film-regia.
Il film è tratto dal libro Nomadland – Un racconto d’inchiesta (2017) scritto da Jessica Bruder (in Italia lo pubblicano le Edizioni Clichy). Fern (Frances McDormand) è una donna che attraversa il continente dell’America del Nord per lavorare e vive di un Van che ha personalizzato per ricavare spazio e comodità nei ricordi: ha lasciato Empire nel Nevada dove lavorava con il marito Bo perché questa boom-town lavorativa è diventata una cattedrale nel deserto, dopo la chiusura delle attività. Nella prima parte del film– che sembra un documentario sulla fine del lavoro negli States e sulla rincorsa dei non garantiti alla sua ricerca – Fern fa parte di questa moltitudine di reietti che non hanno casa e che vivono in van o roulottes e che fanno parte degli sfollati dell’Occidente che non scappano da una guerra, ma dall’implosione del sogno – ora incubo – capitalistico.
Mentre rimbalza dagli immensi non-luoghi di Amazon alle praterie del Parco nazionale canadese di Grasslands, mentre si lega agli attori-loro stessi Linda May, Charlene Swankie, Bob Wells, Fern incotra Dave (David Strathairn) che gli offre una nuova vita. Ma la donna dai capelli corti, fragile e forte, audace e coraggiosa, segue il cerchio del suo amore per Bo: “perché se si ricorda qualcuno, questo vive”. Tutto è perfetto in questo che è un film sulla perdita: le musiche di Ludovico Einaudi e la fotografia della bellezza del britannico Joshua James Richards. Anche la lentezza dolorosa ed esasperante della prima parte dell’opera.  Perché, “la tua eterna estate non dovrà sfiorire / né perdere possesso del bello che tu hai”.
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