ilNapolista

Non abbiamo ancora capito che la difesa dei diritti umani non è politica

Dalla Nazionale che non si inginocchia all’Uefa che promuove un calcio apolitico. Ignorare l’impatto sociale dello sport, all’epoca dei social, è fuori dal mondo

Non abbiamo ancora capito che la difesa dei diritti umani non è politica

Che la nostra Nazionale arrivi in fondo o meno, gli Europei del 2021 saranno ricordati sicuramente e soprattutto per il coinvolgimento dei protagonisti nella difesa dei diritti civili. Già in questa prima parte della manifestazione, il calcio si è schierato davanti a due episodi importanti: il sostegno alla comunità LGBT+ dopo lo scontro tra le istituzioni di Monaco di Baviera e l’Uefa e quello alla campagna Black Lives Matter contro la discriminazione razziale. Peraltro, proprio nei giorni in cui l’ex poliziotto che ha causato la morte di George Floyd è stato condannato a 22 anni e mezzo di reclusione.

Nel primo è l’ente custode del calcio europeo a non uscirne bene: riprendendo la linea della federcalcio tedesca all’epoca dei fatti di Minneapolis, l’Uefa ha impedito che l’Allianz Arena si colorasse d’arcobaleno perché l’iniziativa aveva una chiara connotazione politica come risposta nei confronti di una legge approvata quasi all’unanimità dal parlamento ungherese. Una misura che vieta la diffusione di materiale che promuove l’omosessualità o il cambio di sesso ai minori di 18 anni, precisando che “non dovrebbero essere finalizzate a promuovere la segregazione di genere, il cambiamento di genere o l’omosessualità”.

Il calcio, si sa, è un fenomeno che tocca ogni latitudine e la strategia di Ceferin è quella di evitare ogni riferimento di tipo politico nelle decisioni. Specialmente se poi vanno a colpire un alleato recente dell’Uefa: Budapest ha ospitato l’ultima Supercoppa Europea ed è stata la soluzione al problema delle quarantene dei viaggi nelle gare delle coppe quest’anno. Un attacco aperto e dichiarato non poteva essere consentito.

Nella questione sull’inginocchiarsi sì/inginocchiarsi no, risolta con l’inginocchiarsi solo se ce lo chiedono, a fare la figuraccia è stata la Federcalcio italiana. Sembra infatti che sia stata scimmiottata male la linea dell’Uefa che perlomeno s’impegna con discreto successo a mettere le toppe dopo le uscite infelici. La mezza squadra in piedi contro il Galles, l’intervista di Chiellini e ora la posizione (non è chiaro se ufficiale o meno) in cui la Figc dichiara di non appoggiare la campagna Black Lives Matter sembrano fatti fuori dal mondo. A meno che non ci si riconosca esplicitamente razzisti, significa dirsi neutrali per evitare coinvolgimenti politici. Lo facciamo per non sembrare diversi dalla squadra che abbiamo di fronte. Ci toccherà tifare, nelle altre gare, le squadre che aderiscono all’iniziativa per sperare che i nostri calciatori facciano altrettanto. E che non si riduca il tutto a gesto simbolico. Perché altrimenti tante altre usanze potrebbero tranquillamente essere accantonate in nome di una riflessione e un impegno individuale contro questo tipo di problemi.

Alla base di tutto questo c’è un enorme equivoco, se così si può definire. I diritti umani non hanno connotazione politica. Sono quell’insieme di libertà sotto la cui egida deve svolgersi la socialità. Sono la base della convivenza civile, della tutela della diversità, della democrazia. Non è qualcosa che deve dividere, anzi, deve unire. Sono stati definiti proprio per questo motivo, per individuare ciò che comune a tutti, dalla nascita. L’argomento non dovrebbe essere nemmeno dibattuto, in nessuna sede. Sfugge all’approvazione collettiva. Appoggiare una campagna contro la discriminazione, di qualunque si tratti, dovrebbe essere qualcosa di automatico. Che sia in risposta ad un abuso di potere o ad una legge dai tratti omofobi, non dovrebbe importare a nessuno nei ragionamenti sull’adesione.

Inoltre, proprio negli ultimi anni, il peso politico del calcio è aumentato a dismisura, sia da un punto di vista istituzionale che individuale. Per quanto riguarda il primo aspetto, un esempio recente e lampante è il riconoscimento della Fifa di nazionali come Kosovo e Gibilterra. Tanti specialisti, tra cui il professor Benedetto Conforti, ex giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, avevano sottolineato come questo fosse un passo fondamentale verso il riconoscimento dell’Onu: ad oggi la maggior parte delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea hanno riconosciuto il Kosovo.

L’ascesa progressiva dei social network ha valorizzato le individualità, ha conferito una certa responsabilità sociale agli sportivi in generale e molti, in modo lodevole, hanno deciso di usare la loro popolarità per dare un apporto in questo senso. Tre anni fa, una giornalista disse a LeBron James “Shut up and dribble”, una specie di “zitto e gioca”, quando il giocatore si espresse contro Donald Trump. Quella frase è anche il titolo di una serie in cui si illustra il peso degli atleti al di fuori dello sport. Perché ormai questo è un veicolo enorme. Se prima poteva essere usato per la promozione di determinate cause, ora ha quasi il dovere di farlo. Altrimenti la nostra pilatesca neutralità non avrebbe fatto così rumore.

ilnapolista © riproduzione riservata