Nella bella intervista a Sportitalia (non sembrava un programma italiano), ha sparso livore verso i bianconeri. Sa, e in parte lo dice, che la colpa è solo sua
Senso del pudore impone di non fare il revival del disgusto ideologico per la Juventus che Maurizio Sarri trasmetteva quando era l’allenatore del Napoli. Era un copione – ci caddero quasi tutti – ormai archiviato alla voce “tradimento” nella comodità dell’auto-assoluzione: fu lui a fregarci, mica noi babbei. Però quel filo spinato che non lega più Sarri alla Juve è ancora tagliente. E’ un sospeso non elaborato del tutto. Sarri ne ha parlato a profusione nell’intervista concessa a Sportitalia, bucando lo stupore dell’habitué del calcio per quegli appassionanti minuti di domande vere e risposte dirette. Mediaticamente straniante, per i canoni italiani: non la solita solfa di assist imboccati, temi preconfezionati, non-detti; piuttosto un dialogo appuntito, all’americana.
Ebbene, Sarri ha sparpagliato livore per la Juve un po’ dappertutto. Lo scudetto scontato, non festeggiato (“ora festeggiano il quarto posto”), la multinazionale Ronaldo da gestire, il flop di Pirlo. Con calma ha colpito dove voleva, liberandosi. Senza mai arrivare però ad unire i puntini, all’auto-analisi definitiva: Sarri non voleva l’Italia, il ritorno a casa purchessia; voleva la Juventus. Voleva la Juve perché nella sua visione parrocchiale della carriera la Juve era il massimo, il mostro finale dell’ambizione, il punto d’arrivo d’una vita strappata alla noia del posto fisso in banca per farsi allenatore di pallone. Altro che Londra, il Chelsea. La Juve, in questa regione parziale dell’universo calcistico, è la Juve. Il provincialismo spiegato bene.
A fine anno sabbatico, trascorso in solitario silenzio stampa, Sarri ammette l’errore. Con una certa fatica, intima.
«Al Chelsea ho fatto un errore clamoroso. Ho fatto di tutto per tornare in Italia. Marina Granovskaia non voleva farmi tornare in Italia. Ho fatto un errore clamoroso di valutazione perché il Chelsea è un grande club. L’ho vissuto in un anno particolare, Abramovich non poteva entrare in Inghilterra. La sessione di mercato successiva alla mia sono arrivati giocatori dinamici, tecnici, adatti al mio modo di giocare, Havertz, Mount, Werner, Zyech».
E’ un meccanismo nostalgico banale: il ritorno alla bella del liceo che non ti si filava all’epoca, d’improvviso disponibile, ammiccante. Quel desiderio di conquista mai risolto, il richiamo dei bei tempi. La rivalsa possibile. Un’esplosione quasi ormonale, irrinunciabile. La Juve era la Juve, per Sarri, anche quando ne parlava malissimo con la tuta del Napoli. La volpe e l’uva, quella roba lì.
Sarri molla il Chelsea, i miliardi, l’Inghilterra, la Premier, l’Europa, per “tornare in Italia”. Non lo dice, è doloroso, ma è “per tornare alla Juve”. Per poi rendersi conto d’aver idealizzato quel desiderio, quasi subito, prestissimo.
«A metà ottobre alla Juventus, ho fatto una riunione con la staff. Andiamo dritto per la nostra strada e andiamo a casa tra venti giorni? Oppure scendiamo a compromessi, proviamo a vincere lo scudetto tanto poi andiamo a casa lo stesso? Abbiamo scelto la seconda ipotesi».
Sembra, ascoltandolo, un’ammissione di colpa. E invece lui resiste, tignoso. Ricompone questa storia d’attrazione malriposta con l’acido di chi ancora non se n’è fatto una ragione, non del tutto. E’ la Juve, il problema, non lui.
Nell’incalzante ritmo di domande tese, spicciole (di nuovo: che bello!) Sarri ha persino riadattato un suo vecchio alibi- refrain ai bianconeri: il fatturato.
«Questa storia che la Juve deve vincere per forza la Champions, è falsa. Può anche vincere la Champions, ma nella classifica dei fatturati è decima in Europa. Quindi ce ne sono nove potenzialmente più forte».
I napoletani questo tormentone ce l’hanno ancora tatuato nella coscienza, accanto al Palazzo da abbattere con la rivoluzione eccetera eccetera.
Sarri si riconosce al centro d’un loop: per tornare in Ital… ehm… alla Juve Sarri scese da un carro europeo che puntava alla vittoria della Champions League. Gli si legge il tormento, tra le righe. Jorginho, il “suo” Jorginho che è rimasto lì ora è un papabile per il Pallone d’Oro. E’ alla Lazio per riavviare una carriera interrotta da una delusione sentimentale. Rimpicciolito, in un certo senso. Ma più maturo. Forse più consapevole.