Al Corriere: «Eduardo una volta ci accolse nel suo camerino e ci chiese: “Voi state ancora a Napoli? Fuitevenne!”. Allora la considerava una città ingrata»

Il Corriere della Sera intervista Lello Arena. Racconta il suo debutto al circo, come maestro elementare itinerante. Ci approdò dopo aver fatto inutilmente domande presso varie scuola dopo le magistrali. Era un incarico che rifiutavano tutti, lui lo accettò. Lo stipendio era bassissimo, così iniziò a intrattenere il pubblico durante le operazioni di pulizia della pista, dopo il numero degli elefanti.
«Nei momenti in cui la pista doveva essere ripulita dopo il numero degli elefanti, che facevano un vero macello, io assieme ad altri intrattenevamo il pubblico con scenette ridicole: facevamo finta di litigare, di tirarci l’acqua addosso, spargevamo coriandoli… In quel periodo ho imparato il gioco di squadra, che non ho dimenticato: in un circo tutti sono uguali, dai grandi performer agli inservienti, non ci sono differenze, una grande famiglia».
Racconta le sue origini, l’educazione dalle suore e il desiderio di diventare chierichetto. E anche come nacque la passione per il mestiere di attore.
«Forse dal fatto che mi prendevano in giro i compagni di scuola. Prima di tutto per il mio cognome: Arena significa sabbia, e mi avevano soprannominato Lello Sabbia… poi, per il mio strabismo, mi chiamavano “occhiestuorte”. Pian piano, la mia è stata una reazione, recitavo un ruolo, lo strabismo un marchio di fabbrica, una piccola diversità che mi ha reso riconoscibile al futuro pubblico».
Lello Arena ha fatto parte de La Smorfia, con Enzo Decaro e Massimo Troisi.
«Ci divertivamo da matti: io ero il più brutto e giocavo sulla mia diversità. Enzo, il più bello: a teatro le prime file erano gremite dalle signorine che venivano per lui».
Racconta la morte di Troisi.
«Il mio più caro amico, una persona sensibile, delicata, una bella mente. Nelle sceneggiature lui mi assegnava il ruolo e poi ci lavoravamo assieme, con lui era un gioco continuo…».
Il loro litigio.
«Ci fu un periodo di rottura sul set di un film “Le vie del Signore sono finite”. Dovevo interpretare un personaggio, un paralitico, poi affidato ad altro attore. Ne avrei dovuto fare un altro, ma la troupe insisteva che dovevo fare proprio quello e Massimo credette che fossi io a insistere per il ruolo, che tramassi alle sue spalle. Non era vero… Negli anni seguenti, tra una telefonata e l’altra, ci riconciliammo e ho un rammarico: averlo lasciato troppo solo».
L’incontro con Eduardo De Filippo:
«Una volta accolse noi tre nel suo camerino al Teatro Giulio Cesare di Roma e ci chiese: “Voi state ancora a Napoli? Fuitevenne!”. Allora la considerava una città ingrata».
Parla del suo rapporto con Napoli, che nel libro «Io, Napoli e tu» definisce «una turista».
«È l’unica città al mondo che invece di farsi visitare, ti visita, ti costringe a fare il punto su te stesso. Poggia saldamente su migliaia di teschi, testimonianze vere della morte, e poi è rimpinzata di santi patroni. La sua tradizionale accoglienza è mitigata dalla tendenza a non fidarsi degli altri, che sono stati spesso degli invasori. Ormai da tempo vivo a Roma, ma quando torno a Napoli vado sempre in un piccolo hotel a via Toledo, mi affaccio da un balconcino e assisto a scenette straordinarie».