Alla Lazio il tecnico aveva cucito un vestito su misura per il suo attaccante. Mancini ovviamente non poteva farlo. E le idee di Sarri sono più vicine a quelle di Mancini
Magnateve u’ limone. Così (e non solo così) risponde Ciro Immobile sui social alle tantissime critiche ricevute sull’onda delle prestazioni senza dubbio poco brillanti che l’attaccante di Torre Annunziata ha offerto, pur dopo un buon girone, nelle fasi finali del vincente Europeo dell’Italia di Mancini.
Non è certo una reazione elegante. Anzi, si potrebbe dire (e dispiace) che certifica piuttosto l’inquietudine con cui il ragazzo ha vissuto il digiuno dal gol delle ultime partite, le molte chiacchiere che si sono fatte in merito e forse anche le tante sostituzioni di un tecnico che in ogni caso non gli ha mai tolto la fiducia, schierandolo sempre titolare.
E giustamente, verrebbe da dire.
Giustamente, sì.
Perché ad Immobile nonostante tutto la fiducia non è stata regalata: se l’è conquistata in questi anni sul campo a suon di reti.
E anche perché non avrebbe comunque avuto alcun senso tenere in panchina la scarpa d’oro della scorsa stagione (oltreché il marcatore più prolifico della nostra Nazionale fra quelli in attività) per far giocare – con tutto il rispetto – Belotti o il baby Raspadori.
Eppure, non appena ha cominciato a non segnare (e a giocare maluccio) Immobile è diventato il facile bersaglio di certa stampa e pure dei tifosi. Di quelle frange, spesso più rumorose che numerose, che – nel calcio e non solo – proprio non riescono a vivere senza la ricerca spasmodica di un capro espiatorio e senza chiedere, prendendo in prestito le parole che ha usato Raniero Virgilio a proposito di Bernardeschi, ogni giorno le dimissioni di qualcuno. Perfino quando si vince.
C’è chi si è spinto addirittura a constatare improvvidamente che l’Italia ha vinto gli Europei senza un attaccante. Ecco: tutto questo – come accade spesso – spezza il chiodo.
Ci sembra esagerato.
Immobile non è un campione. Non è Lewandowski, non è Benzema, non è Higuain e non è neanche Lukaku. Ma non è certo scarso. Non è un centravanti dotato della tecnica, della fantasia e della visione per indossare con efficacia qualsiasi vestito, ma è uno che i gol li ha sempre fatti. E per una punta non è un dettaglio. Centocinquanta nelle ultime cinque stagioni. Ribadiamo: centocinquanta. Valli a fare.
Il vestito, certo, Simone Inzaghi gliel’ha cucito con cura, costruendogli attorno una squadra che l’ha messo nelle condizioni di esprimere le sue migliori caratteristiche, e cioè l’attacco tempestivo degli spazi e l’aggressione forsennata della porta. Inzaghi – che è bravo assai, e non a caso sta all’Inter – l’ha riaccolto nel nostro campionato in un momento psicologicamente complicato della sua carriera, dopo le sfortunate esperienze all’estero. E ha avuto la bravura di capire che l’unica strada per recuperarlo era metterlo realmente al centro del progetto tattico, tarando sul suo rilancio le ambizioni della Lazio e improntando su di lui il gioco dei biancocelesti, fatto di intensità, di imbucate improvvise e imprevedibili e di allegre scorribande alle spalle dei difensori, sperimentate giocando in velocità con la linea del fuorigioco.
Di quella Lazio Immobile ha poi fatto le fortune per cinque anni. E cioè per tutta la permanenza di Inzaghi. È stato un bel binomio.
Questo non è successo (o almeno non sempre) in Nazionale, visto che Mancini – e non avrebbe avuto senso il contrario – ha messo su il gioco dell’Italia su principi del tutto diversi. Valorizzando cioè le tendenze di altri interpreti, da Jorginho a Insigne passando per Verratti. Superfluo dire che ha avuto ragione, visto che ha vinto l’Europeo e rilanciato un movimento che aveva toccato con Ventura e Tavecchio il suo punto più basso.
Ma è semplicemente una questione tattica.
Ed ora sarà interessante capire se con Sarri – in un sistema che per larghi tratti ricorda certamente più questa Nazionale che il 3-5-2 di Inzaghi – Immobile riuscirà, sulla scorta di un lavoro quotidiano, a integrarsi meglio in un calcio di possesso, dove all’attaccante non è richiesta la ricerca sistematica della profondità ma invece la capacità di legare il gioco e non solo di finalizzarlo. Sarà una sfida avvincente per Ciro e pure per l’allenatore di Figline cui sarà forse chiesto di rinunciare a una fetta del suo integralismo tattico per non disperdere il potenziale di quello che grazie al lavoro di Inzaghi è diventato uno dei calciatori più determinanti dello scacchiere laziale.
Sono automatiche, dunque, le conclusioni: nella vita (e pure nel calcio) ci vuole un po’ di equilibrio di giudizio. Chi scrive non ne è mai stato innamorato (neanche quando De Laurentiis fu accusato di tirchieria per non averlo preso per otto milioni, preferendogli Milik), ma Immobile molto semplicemente non era un fuoriclasse prima dell’Europeo e non è l’ultimo arrivato adesso. È un attaccante buono, perfino ottimo, quando gioca in un contesto che ne valorizza alcune indiscutibili doti. Quando l’allenatore può costruirgli la squadra giusta attorno. Questo, inutile dirsi il contrario, conta. Può contare perfino se sei Van Basten. Figuriamoci se non lo sei.