Quel giro in bus è stata la certificazione che lo sport (e la sua celebrazione) è ormai diventato nient’altro che funzione di potere, strumento di acquisizione di consenso
L’altro ieri, con il viaggio itinerante del pullman scoperto da cui i calciatori della nazionale hanno finalmente (per loro) interagito con il pubblico festante ai loro piedi (letteralmente, oltre che in senso figurato) si è consumato l’ultimo atto del declino di un paese, anzi l’atto che certifica prima ancora che il suo punto di non ritorno, quello che lo sport (e la sua celebrazione) è ormai diventato per i diretti interessati: nient’altro che funzione di potere, nient’altro che strumento di distrazione di massa e di acquisizione di consenso.
Un buio dell’anima che abbraccerebbe più componenti del nostro vivere sociale, ma che tuttavia ha avuto quali attori protagonisti dello scempio quelli che solo apparentemente erano controparti di una “trattativa” (si va in giro col pullman ed allora andiamo a Palazzo Chigi, in caso contrario no), essendo in realtà identica faccia della stessa medaglia: i calciatori (con la collettività festante loro alleata) da un lato, i governanti dall’altro.
Calciatori e pubblico condannati al loro rapporto simbiotico che si autoalimenta, con i primi che grazie alla folla idolatrante hanno la possibilità di guadagni, di celebrità e di soddisfacimento del proprio ego e con il pubblico che grazie ai calciatori (propri idoli) ha la possibilità, prima ancora di distrarsi dalle fatiche del vivere, di scaricare sulle aspettative sportive proprio le conseguenze psico-fisiche che queste fatiche del vivere generano.
Governanti che proprio grazie all’alleanza di questi “attori” hanno la possibilità di gestire ed acquisire potere, e non sia mai di esercitarlo in nome del bene comune.
Non so, e non mi interessa, cosa sia successo a margine di quanto ho visto.
So, però, che non c’è stata “trattativa” e che anzi è gravemente sbagliato chiamarla così, perché una trattativa presuppone l’effettiva esistenza di due parti contrapposte (per obiettivi che si rappresentano), mentre quando gli interessi sono identici (non comuni, si badi bene, ma identici) allora nemmeno si è in presenza di due parti in conflitto, ma di una sola ed unica volontà (e quindi di una sola, unica e complessiva parte).
E so anche che a prescindere dall’accordo finale (frutto di medesima impostazione e di medesimi interessi originari) hanno perso tutti, l’altro ieri.
I calciatori e la collettività che li adora si sono rilevati per ciò che rappresentano al di là ed al di fuori di un campo da calcio.
Gente che non può fare a meno di dare libero sfogo alla sua primitiva pulsione di sentire l’acclamazione e l’adorazione del prossimo verso se stessa, di cibarsi degli applausi e degli sguardi adoranti del loro pubblico, di riempirsi vene, cuore e stomaco del delirio collettivo che generano.
Gente che, per converso, non può vivere senza l’ansia da proiezione che i propri idoli calcistici danno la possibilità di sublimare.
Gente in entrambi i frangenti tesa prima di tutto (e soprattutto) al senso narcisistico di sé stessa, per cui non conta il contesto che si sta vivendo, in cui ogni giorno ministri e rappresentanti della comunità scientifica continuano a comunicare circa la difficoltà del momento ed in cui, per la complicità delle varianti e della non totalitaria risposta vaccinale da parte della popolazione, si rischia di arrivare a nuove prossime chiusure.
Per cui non conta che ancora oggi non si sa se gli studenti a settembre potranno tornare a scuola di persona o se invece rimarrà in vigore la didattica a distanza con tutta la forbice di apprendimento che continuerà ad aumentare tra quelli che strumenti per apprendere a distanza ne hanno e quelli che a causa dell’indigenza in cui vivono non ne hanno.
E certo, che cazzo gliene frega: i calciatori hanno figli che strumenti in tal senso ne hanno e ne avranno, il pubblico (fatto per lo più di gente quotidianamente sfruttata proprio per la sua ignoranza e la scarsa capacità di incidere nella vita comune) nella peggiore delle ipotesi pensa che con la cultura tanto non si mangia, inconsapevoli che a causa di questo proprio i loro figli saranno i prossimi sfruttati che in futuro li sostituiranno in questa catena alimentare dell’emarginazione.
E qui arriviamo allo stato, ai suoi governanti, a quelli che, come si dice e si legge, pare abbiano consentito ai calciatori (che lo chiedevano) di dare un senso all’assembramento, senza precedenti negli ultimi mesi, delle persone accorse lì per dare sfogo alla pubblica adorazione dell’idolo, facendo scorrazzare in giro il pullman della nazionale.
A quelli che, quanto meno ed a voler essere magnanimi, hanno girato la faccia dall’altra parte rispetto a quella in cui si stava compiendo lo scempio – nonostante tutti i giorni si ripeta che non si è fuori dalla pandemia e che bisogna mantenere alta la guardia.
Qui, per associazione, la mente corre veloce ai due concetti di “populismo” e di “tecnica” di cui tanto si sente parlare nei canali e nelle trasmissioni giornalistiche cosiddette “mainstream”.
Quante volte si è utilizzato l’aggettivo “populista” per qualificare ogni pensiero a cui si volevano attribuire bassi livelli qualitativi delle proprie argomentazioni, perché ritenute intrise di inutile retorica o perché funzionali al “parlare alla pancia delle persone”.
Quante volte, invece, si è usato l’aggettivo “tecnico” per qualificare l’esatto contrario, e cioè quel pensiero che proviene da chi ne dovrebbe rappresentare competenza per bagaglio culturale o formazione professionale e che per ciò solo non può che esprimere cose giuste e legittime.
Sembrano concetti in chiaro contrasto tra di loro; anzi, il “borghese intelligente”, quello che pensa di potersi auto-definire progressista per il solo fatto di sentirsi diverso (superiore) da chi a suo avviso ha argomentazioni di basso cabotaggio, la “tecnica” la sposa per definizione – perché nel suo immaginario, prima ancora che essere sinonimo di “cosa giusta”, è sinonimo di superiorità rispetto al “popolo” (perché ritenuto sinonimo di volgare, e dunque scorretto per definizione).
Grave errore di fondo.
Non esistono governi “tecnici”, esistono solo governi politici in cui la “tecnica” è mero strumento per raggiungere gli obiettivi che vi si danno; l’episodio dell’altro ieri, quello del pullman scoperto in giro per una Roma assembrata, ne è l’ennesimo esempio (ove ce ne fosse bisogno).
È proprio in questo contesto che può capirsi quanto i due concetti che sembrano essere in profonda antitesi tra di loro, si nutrono in realtà l’uno dell’altro.
In un periodo di scollamento sociale senza precedenti, in cui ci si prepara alla macelleria economico/sociale che dopo l’abolizione del blocco dei licenziamenti si abbatterà come uno tsunami su tutti noi, in cui si sono chiuse attività in interi settori commerciali senza predisporre indennizzi degni di questo nome, in cui ancora una volta si evita di discutere di tutte le persone che si sono fatte morire a casa per l’inefficienza del sistema sanitario e la deficienza di quello pubblico a cui si è arrivati dopo anni di tagli lineari dei propri fondi, ebbene in tutto questo sfacelo la “tecnica” ha proprio avuto bisogno del “populismo”.
Proprio di quel “populismo” tanto vituperato, da cui fa finta di smarcarsi.
La gente aveva bisogno di essere distratta, aveva bisogno che “si parlasse alla sua pancia”, e che anzi si ascoltassero i rutti che aveva bisogno di esprimere; ed eccola accontentata.
Pazienza se fino al giorno prima si era gridato al mantenere alti i livelli di guardia ed attenzione, per i possibili nuovi contagi ed i possibili futuri nuovi morti.
No, non conta, cioè all’improvviso non conta più.
Perché quando il progetto politico è assente o peggio ancora quando il progetto politico si profila di lacrime e sangue, ecco che conviene eccome parlare alla pancia delle persone e soddisfarne le più comuni pulsioni, nel più classico “pane e circo” da spargere come coriandoli di passeggera distrazione dal male.
Nonostante siano passati 2000 anni dalla nascita del relativo concetto, nonostante il “governo della tecnica” che da questo dovrebbe scappare.
Quante sconfitte, insomma.
Dei calciatori, che vivono in una continua voglia di ebbrezza (propria ed altrui) da dover soddisfare in ogni modo ed in ogni dove, perché grazie a quell’ebbrezza avranno sempre maggiori guadagni e per l’effetto avranno figli che mai patiranno la trasformazione della scuola da luogo fisico a luogo immateriale di apprendimento (salvo poi lamentarsi quando quella stessa ebbrezza, ed anzi follia collettiva che prima li acclamava, il giorno dopo arriva a farne minacciare le mogli).
Di tutti noi, che viviamo quest’epoca in cui sempre di più cediamo all’altalena che ci fa passare dal niente (chiusi a casa senza relazioni con il prossimo, proiettati nel vuoto cosmico effetto dell’ignoto) al tutto e subito (in giro per strada, assembrati e festanti per dimenticarci di quel niente vissuto fino a due minuti prima), dimenticandoci di quei pericoli di cui torneremo a ricordarci solo quando ci mancherà il respiro a causa di quella stessa malattia di cui spesso neghiamo l’esistenza.
Dello stato, che di quel “populismo” da cui dovrebbe smarcarsi (e da cui pretendono di smarcarsi tanto i “tecnici”, quanto quelli che li acclamano) sembra ogni giorno di più semplice e facile prodotto.
I posteri diranno se è meglio vincere un europeo o perdere così, perdere tutto così.