Già a Monaco 72 c’erano nove psicologi. Oggi sono aumentate le pressioni, Velasco disse che era rimasto colpito dalla Biles che guardava sempre il cellulare
Il Napolista ospita un intervento di Alberto Cei psicologo, direttore scientifico del master in psicologia dello sport.
Sono le Olimpiadi delle emozioni e non quelle dei mental coach. Anche se può sembrare esattamente l’opposto dato che i media e i social utilizzati dagli stessi atleti trasmettono giornalmente ogni loro battito di ciglia. Questa forma di comunicazione deriva anche dall’aver detto per anni che per evitare l’insorgere dei problemi psicologici se non di psicopatologie gli atleti avrebbero dovuto condividere i loro disagi, per evitare guai peggiori. Naturalmente ci si riferiva alla condivisione con persone per loro importanti e non pubbliche.
Comunque per tutti viene il giorno in cui si toccano i propri limiti non solo fisici ma anche psicologici, e così molti atleti di livello assoluto si dimostrano più fragili proprio nell’evento per loro più importante, le Olimpiadi.
Non è una storia nuova, si può trovare già descritta in un numero dell’International Journal of Sport Psychology del 1972 con il resoconto di nove psicologi che hanno partecipato alle Olimpiadi di Monaco. A distanza di cinquant’anni, il ruolo dello psicologo dello sport, chiamato ora mental coach, è esploso durante questi Giochi Olimpici. Lo stress non più gestito e la depressione hanno colpito i super-winners, come Djokovic, Osaka, Biles, ma anche atleti più giovani alla loro prima esperienza olimpica, che hanno poi vinto una medaglia. Gli atleti e le atlete percepiscono con più consapevolezza le aspettative di risultato che il mondo gli impone, devono eccellere altrimenti valgono zero.
Per molti di loro non vi sono alternative alla vittoria, pensiamo a Djokovic che dopo 22 vittorie consecutive ha perso una partita che stava dominando e anche il suo autocontrollo. Sono storie che diventano tragiche anche per l’impossibilità degli atleti di vivere diversamente. Ricordo un commento di Julio Velasco quando osserva che ha visto nelle immagini televisive che Simone Biles è sempre attaccata al suo cellulare, fonte di stress. Mi viene in mente una situazione opposta quando Rudic, ai mondiali di nuoto a Roma di molti anni fa, si fece consegnare i cellulari dai giocatori di pallanuoto perché non voleva che si distraessero.
Ovviamente ognuno è libero di scegliere cosa vuole fare, ma la grande esposizione pubblica degli atleti odierni e la consapevolezza che il successo è veramente un modo per cambiare radicalmente il loro futuro economico sono fattori molto destabilizzanti che sinora sono stati poco trattati. Da ciò deriva l’esplosione della figura del mental coach o del ruolo di campioni del passato come Vialli con la nazionale di calcio o Phelps che sulla base di una riflessine critica sulle proprie esperienze di atleta di livello assoluto possono svolgere un ruolo positivo sull’educazione mentale di altri giovani.