Quei calciatori che per buona parte dei tifosi (e anche per Adl) potevano giocare solo in un modo, stanno invece dimostrando che sì, possono rendere anche seguendo un altro spartito
Il ritorno del calcio liquido
Come gioca il Napoli? È una domanda a cui, negli ultimi anni, abbiamo risposto in maniera sempre diversa. Ontologicamente diversa. In alcune stagioni, però, rispondere a questa domanda era una piccola impresa di lettura, di comprensione calcistica. Stiamo parlando degli anni di Ancelotti e di Spalletti, di due ere gestite da altrettanti molto differenti per approccio tattico e dialettico, ma che avevano capito una cosa: per valorizzare questo Napoli, per farlo rendere al meglio, era ed è necessario variare molto, variare spesso, evitare ristagni, rigurgiti nostalgici che non possono più appartenere al presente. È un discorso che non vale solo per il Napoli-di-Sarri, ma anche per la Juve-di-Allegri, per il Barcellona-di-Messi, per il Foggia-di-Zeman. Il calcio cambia alla velocità della luce, e lo fa in modo impressionante. L’organico del Napoli è cambiato e andava – va – adottato un altro approccio. Un altro stile.
Dopo Udinese-Napoli, si può dire che a Napoli sia tornato il calcio liquido. Vale a dire una visione del gioco per cui una squadra è, appunto, liquida: si adatta al recipiente in cui viene travasata – in questo caso una partita – e prende la forma di quel recipiente. Senza, però, modificare le sue caratteristiche di base. Nel senso: l’acqua resta acqua; la Coca-Cola resta Coca-Cola; i giocatori del Napoli restano i calciatori del Napoli.
Solo che però, ora, finalmente, quegli stessi calciatori che per qualcuno – non parliamo di allenatori, ma del presidente De Laurentiis, del suo entourage e di una buona fetta della tifoseria – potevano giocare solo in un modo stanno dimostrando che sì, possono rendere anche seguendo un altro spartito. Persino Gattuso aveva capito questo adagio, solo che non aveva le capacità – tattiche, manageriali, caratteriali – di osare, cioè di manipolare la squadra con convinzione e continuità. E ha finito per perdersi.
Cosa sta facendo Spalletti
Luciano Spalletti ce le ha, queste capacità. E le manifesta da sempre. Quando non ha potuto manifestarle – nell’Inter Icardi-centrica e piuttosto limitata tecnicamente di tre-quattro anni fa – si è impantanato, eppure ha portato a casa dei risultati dignitosi, se non addirittura positivi. A Napoli, la rosa che ha a disposizione gli permette di cambiare, di inventare, di cercare sempre nuove soluzioni. Lo sta facendo in un modo meno netto e deciso e quindi meno duro rispetto ad Ancelotti. Ancelotti, però, aveva una missione: doveva compiere una rivoluzione – tecnica, economica, finanche culturale – che in pochi compresero, tra il 2018 e il 2019. Ora Spalletti ha a che fare con un mondo e una situazione diversa, la sta gestendo in maniera meno rigida in alcuni aspetti, ma del tutto simile nella sostanza. Vediamo cos’ha fatto per Udinese-Napoli.
In alto, il 4-3-3 del Napoli in fase offensiva; sopra, il 4-5-1 in fase passiva.
Intanto, partiamo dalle scelte iniziali di formazione e modulo: dopo alcune partite con un sistema ibrido, il tecnico del Napoli è tornato a utilizzare un 4-3-3/4-5-1 di tipo scolastico, con Elmas e Anguissa mezzali ai lati del pivote Fabián Ruiz, e con due esterni a piede invertito (Politano e Insigne) ai lati del centravanti Osimhen. Questo schieramento si evince chiaramente dalle due immagini appena sopra. In realtà, però, i posizionamenti non sono stati così rigidi: in diversi momenti della partita, infatti, Anguissa ed Elmas si sono mossi con principi e obiettivi diversi, in zone diverse; mentre Anguissa restava un po’ più arretrato, quasi a formare il doble pivote classico accanto a Fabián Ruiz, Elmas aveva maggiore libertà di muoversi in avanti, di galleggiare tra le linee di difesa e centrocampo dell’Udinese.
In alto, tutti i palloni giocati da Anguissa; in mezzo, tutti i palloni giocati da Elmas; sopra, invece, uno dei momenti della gara in cui il Napoli manipola il suo 4-3-3 fino quasi a farlo diventare un 4-2-3-1, con Elmas sottopunta, un po’ staccato da Fabián e Anguissa.
Ciò che più conta, ben oltre le scelte di spaziature e posizionamenti in campo, riguarda però i principi di gioco. A Udine, il Napoli è andato in campo per seguire ed eseguire un piano, e l’ha fatto benissimo. Di che piano si tratta? Di una ricerca del possesso arretrato per muovere la difesa avversaria, così da poter andare velocemente in verticale. Spalletti ha usato più o meno queste parole (ha detto che «il palleggio dal basso voleva far venire avanti i difensori dell’Udinese, poi abbiamo avuto delle belle vampate in avanti»), e basta andarsi a leggere i dati antropometrici della difesa dell’Udinese per capire la ratio della sua scelta: qual è il modo migliore per eludere una difesa formata d Rodrigo Becão (1,91 centimetri), Bram Nuytinck (191 cm) e Samir (189 cm)? Magari farli muovere in avanti e poi anticiparli, ovvero muoversi velocemente alle loro spalle o nella porzione di campo davanti a loro. Tutti spazi che, vista la loro mole, fanno fatica a coprire.
Il pallone verticale arriva da Ospina per Osimhen, in questo caso.
Più che il gol di Insigne, che nasce da un lancio lungo, l’azione che porta al palo di Fabián Ruiz è legata a tutte queste dinamiche tattiche che abbiamo appena descritto. Basta guardare queste immagini appena sopra per intendere ciò che vogliamo dire. Certo, in altri momenti della gara il Napoli ha utilizzato il possesso e sviluppato le azioni d’attacco in un altro modo, per esempio ha fatto girare il pallone nella sua metà campo per riposarsi (impossibile raggiungere il 63% di possesso palla senza fermarsi, rallentare o gestire per alcuni frangenti), ha utilizzato le catene laterali per risalire il campo e cercare il cross dagli esterni (12 tentativi totali al 90esimo), ha sovraccaricato il gioco dal lato di Insigne (45 palloni giocati) con Mário Rui ed Elmas. Ma questi schemi – o per meglio dire: scenari – erano solo la parte di un tutto. Di un tutto più ampio.
Cambiare i connotati ai giocatori
Questo tutto, ovviamente, è uno spettro in cui abitano i giocatori del Napoli. Che dipende da loro, dalle loro caratteristiche, dalla loro condizione. E da come vengono messi nelle condizioni di rendere. Nel caso della gara di Udine, le scelte di Spalletti hanno messo tutti i suoi calciatori nelle condizioni di rendere. Solo, come detto, in condizioni diverse rispetto al passato antico e recente: per esempio, i dati relativi bilanciamento del gioco sulle fasce laterali dicono che il Napoli in realtà ha costruito di più sulla fascia destra (39%) che non sulla sinistra (34%); non si è vista la fase di costruzione a tre difensori utilizzata a Leicester; i passaggi tentati sono stati molti (613), ma ben 52 sono stati lunghi: un numero considerevole, considerando che la media dello scorso anno era di circa 40 passaggi lunghi per match.
È così che si creano nuove situazioni per vecchi giocatori. È così che Fabián Ruiz può giocare come pivote davanti alla difesa. E può farlo molto, molto bene. Tutto parte dal discorso sui cambiamenti che abbiamo fatto finora: se pensiamo che il Napoli debba giocare in un solo modo per poter essere efficace e vincere le partite, ovvero attraverso il possesso sincopato come arma principale – se non unica arma – per poter risalire il campo e costruire azioni d’attacco, allora sì, è vero, Fabián Ruiz non può fare il pivote del 4-3-3.
Perché non è Jorginho, perché è un giocatore che ama muoversi, farsi dare la palla in diverse zone del campo e poi smistarla in modi differenti. Soprattutto quest’ultimo punto è fondamentale: a Udine, lo spagnolo ha toccato 84 volte il pallone, ha tentato 78 passaggi e 6 di questi erano lunghi. Quindi un passaggio lungo ogni 14 passaggi in generale. In una partita di Jorginho nel suo periodo a Napoli – abbiamo scelto Juventus-Napoli 0-1 del 22 aprile 2018 – Jorginho toccò 126 volte la palla, tentò 115 passaggi e solo 4 di questi erano lunghi. Un passaggio lungo ogni 28 tentati. Un numero esattamente doppio rispetto a quello di Fabián.
In alto, tutti i passaggi di Jorginho in Juventus-Napoli 0-1 del 22 aprile 2018; sopra, tutti i passaggi di Fabián Ruiz nella partita di ieri contro l’Udinese.
Se non dovessero bastare questi dati, ecco una rappresentazione grafica. Ecco perché Fabián, fino a ieri, non avrebbe potuto fare il pivote del 4-3-3. O meglio: ecco perché può farlo. Può farlo ora che il Napoli ha capito – perché c’è un allenatore che l’ha spiegato, che lo sta mostrando a tutti – che un altro 4-3-3 è possibile. Se non addirittura auspicabile, avendo Anguissa al posto di Allan, Elmas o Zielinski al posto di Hamsik, Politano al posto di Callejón, Osimhen al posto di Mertens. E pure con Insigne al posto di Insigne, che sa fare quello che piace a Insigne ma viene convinto anche a fare altre cose. Ecco un altro giocatore a cui Spalletti sta cambiando i connotati, più o meno.
E poi oggi sappiamo che non esiste solo il 4-3-3/4-5-1, oppure solo il 4-2-3-1/4-4-2 di Gattuso nello scorso anno. Esiste il 3-5-2 di Leicester che scivola e diventa 4-5-1 in fase difensiva. Esiste il 4-2-3-1/4-5-1 di Napoli-Juventus. Ed esiste il 4-3-3 diverso schierato contro Venezia e Genoa nelle prime due gare della stagione, perché allora c’era Lobotka – un pivote più simile a Jorginho – e allora bisogna cambiare pur rimanendo uguali. Più che questi numeri piuttosto vacui, però, va sottolineato come il Napoli di Spalletti sia già una squadra camaleonte anche per il modo con cui attacca, e quindi anche per il modo in cui difende.
Contro l’Udinese, come detto, il possesso è stato un’arma utile per addormentare la gara solo apparentemente, per poi andare subito in verticale; a Leicester, invece, è servito da strumento difensivo puro per tenere basso il ritmo degli avversari; in casa contro la Juventus, soprattutto nella ripresa, è diventato intenso e tambureggiante, quindi ancora un’altra versione. Dal punto di vista difensivo, il Napoli ha aggredito molto alto in tutte le gare che ha giocato, ma poi ha saputo compattarsi nei momenti in cui era necessario. In cui era giusto farlo. Senza rinunciare mai a voler determinare il contesto, ma pensando anche a gestire le energie, i momenti. Era da tempo che non succedevano cose del genere, a Napoli. Al Napoli.
I calci piazzati più belli degli ultimi anni
Un’altra cosa che non succedeva da tempo – dagli anni di Sarri, probabilmente – erano i gol su schemi da calcio piazzato. Di solito è difficile che queste azioni siano anche belle, se non per i nerd appassionati di certe cose, ma nel caso delle due reti realizzate a Udine, è proprio così. Merito di chi li ha pensati, preparati – diciamo Spalletti, ma certamente questo merito va condiviso con un membro del suo staff – e ovviamente di chi li ha eseguiti.
Anche questo è un lavoro tattico, solo che ha una pasta diversa, è puro situazionismo: non si spiega con un altro termine, per quanto riguarda il primo gol, il perfetto sincronismo tra l’inserimento di Koulibaly e il movimento a venire incontro di Fabián Ruiz sul primo gol, un attimo prima del colpo di testa ravvicinato di Rrahmani; non si spiega con altro termine, se rivediamo il secondo gol, l’indietreggiare di Koulibely nel momento in cui Politano lancia il pallone verso Fabián Ruiz, larghissimo sulla sinistra. Poi ci vuole la qualità nel tocco, nel passaggio, nel tiro. Ci vuole qualcuno che segua l’azione, per vedere cose così belle:
Quattro tocchi.
L’avversario che scompare
Non abbiamo parlato dell’Udinese, neanche per un attimo. Non abbiamo dimenticato di farlo, è solo che non c’è niente da dire. O meglio: la squadra di Gotti – ed è proprio questo il punto di quest’analisi così trionfalistica, per quanto riguarda il Napoli – è stata affrontata e battuta perché è stata studiata da Spalletti e dal suo staff. Partendo da questo studio, è stata limitata nei suoi punti forti e colpita nei suoi punti deboli. Dei 9 tiri tentati dai giocatori bianconeri, solo uno è entrato nello specchio della porta. Di questi 9 tentativi, 8 sono stati scoccati da fuori area.
Spalletti, nel postpartita, ha ricevuto una domanda da Alessandro Costacurta sulla «solidità difensiva di una squadra che subisce niente» – ovviamente l’ex difensore del Milan e della Nazionale si riferiva proprio al Napoli. Questa la sua risposta: «Tutto dipende da come giochi il pallone». Nelle sue parole, in queste parole, c’è un mondo. C’è il calcio moderno. C’è una lectio magistralis sul fatto che il Napoli abbia dominato e annullato il suo avversario perché aveva un piano partita perfetto. Perché sapeva cosa fare con il pallone tra i piedi e quindi, praticamente, non ha avuto bisogno di difendere. Ha attaccato o gestito.
Solo nei primi minuti, il buon pressing dei giocatori di Gotti – guidato da Deulofeu – ha creato qualche piccolo problema al possesso palla del Napoli. Appena ha trovato le misure di quel possesso palla, però, la squadra di Spalletti ha iniziato a prendere il comando della partita. E non l’ha più lasciato, forte della superiorità tecnica dei suoi uomini. E di un sistema tattico che li ha esaltati nelle loro caratteristiche migliori, ovvero in una difesa selettiva e in un possesso vario, ricercato, mai improvvisato ma quasi mai lento, se non nei segmenti di partite in cui doveva essere lento.
Il gol di Lozano.
Perché c’è il video del gol di Lozano prima delle conclusioni? Per mostrare che il Napoli ha continuato a dominare la gara, ad annientare l’Udinese dal punto di vista tattico, quando la partita era già finita. Sempre allo stesso modo: possesso arretrato per muovere i giocatori avversari in fase passiva; servizio in verticale per chiamare fuori il pressing; la palla si muove velocemente, la trappola riesce, si creano i presupposti per un’azione in parità numerica sulla fascia; Mário Rui e Lozano scambiano bene, e sono anche fortunati; Lozano è un calciatore di grande qualità e trova il tiro a giro sul secondo palo.
Conclusioni
Il problema del calcio liquido – perché ovviamente un problema c’è, altrimenti lo farebbero tutti – è che in alcune occasioni il piano gara non si rivela giusto. Oppure gli avversari di turno sono pià forti e/o più organizzati dell’Udinese di Gotti. Oppure ancora i giocatori non riescono a offrire la prestazione che serve, e allora tutto il lavoro di preparazione si perde, diventa inutile, e per di più mancano gli appigli tattici di riferimento per potersi rifugiare. Per limitare i danni. Ecco, il Napoli di Ancelotti non era pronto a giocare in quel modo perché allora i suoi giocatori non seppero – non vollero neanche provarci? – accettare questo rischio.
Ora le cose sembrano cambiate, Spalletti ha avuto un approccio più soft, forse anche più elastico e – si può dire? – più paraculo. Magari i giocatori del Napoli sono anche maturati, sono più pronti a questo genere di responsabilità, ad assecondare certe richieste. Il fatto che il nuovo allenatore abbia capito che questa è la strada, però, è già un enorme punto di partenza. Perché potrà scegliere come continuare, da qui in poi: potrà costruire un’identità più profonda, potrà sposare l’idea di cambiare tutto, sempre e comunque, chissà. Quel che è certo è che il Napoli ha la qualità e la varietà di organico che occorrono per giocare in maniera sempre diversa. Ecco come gioca il Napoli, ora. Di nuovo. Finalmente.