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Jacopo Fo: «In un certo senso la mia famiglia era disumana, alle medie ho capito che provenivo da marziani»

Al Fatto: «Mia madre urlava, piangeva, emetteva emozioni, ma all’atto pratico era un carro armato. Mio padre uguale ma senza piangere e senza urlare».

Jacopo Fo: «In un certo senso la mia famiglia era disumana, alle medie ho capito che provenivo da marziani»

Sul Fatto Quotidiano una lunga intervista a Jacopo Fo, figlio di Franca Rame e Dario Fo. Scrittore, attore, regista,
fumettista e blogger, nel 1981 ha fondato in Umbria “Alcatraz”. Ha dedicato un libro ai suoi genitori: “Com’è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo”.

«Per comprendere l’arte di mio padre ho rivisto a rallentatore, fotogramma per fotogramma, gli spettacoli. E lì ho capito. Ho capito che sul palco, solo lì, apriva la sua cassaforte delle emozioni, del dolore, dei traumi, della follia, della guerra. E diventava un mistero».

Racconta gli ultimi giorni in ospedale con il padre, prima che morisse.

«Scioccanti. Ha affrontato la morte in maniera consapevole ma fingendo di niente: voleva dipingere le pareti della stanza per materializzare le allucinazioni che viveva a causa delle medicine».

Una delle regole di Dario Fo, dice, era quella che non bisognava mai mollare. Nel libro, Jacopo scrive che “non mollare può diventare l’anticamera del martirio”. Spiega perché:

«Per questo ho dovuto consultare uno psichiatra bravissimo, proprio per capire cosa mi scatta nella testa. “Dottore, non posso smettere di fare quello che sto facendo, qualunque cosa succeda”. E lui: “Perché, se ti fermi cosa accade?” Dopo la domanda sono andato in crisi, nella mia mente non esisteva quel quadratino, non esisteva il diritto di buttarmi in terra e piangere. Da questo punto di vista la mia famiglia era disumana».

Su sua madre:

«Lei urlava, piangeva, emetteva emozioni, però all’atto pratico era un carro armato, non in grado di deviare dalle sue azioni; azioni gestite in chiave fisiologica, quasi animalesca. Mio padre uguale ma senza piangere e senza urlare».

Anche dopo il rapimento, Franca Rame non disse nulla. Nonostante ciò che provava, all’esterno sembrava impassibile.

Che la sua famiglia fosse speciale gli è stato chiaro alle medie.

«Da piccolo non avevo metri di paragone, solo alle medie ho intuito che provenivo da “marziani”. Non capivo di calcio, di musica, di auto. Capivo la storia del Vietnam, la Rivoluzione cinese, Barbarossa contro i milanesi o Prevert».

L’interazione con gli altri bambini era

«un dramma. Anche al liceo c’era poca gente con la quale potevo confrontarmi, e l’altro dramma è che non riuscivo a scindere la comunicazione verbale dall’attrazione sessuale: ho rinunciato a ragazze bellissime, che magari ci stavano, ma a un certo punto me ne andavo con la frase “non posso stare qui, non parliamo di niente”. E fuggivo».

 

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