The Athletic scrive che il campione dei Nets “è sconvolto dal fatto che le persone stiano perdendo il lavoro a causa delle restrizioni vaccinali”. Un caso unico nello sport miliardario
Kyrie Irving non è un “no-vax” e nemmeno un “ni-vax”. Più che altro è un “no-pass”. Negli Stati Uniti i titoli esplicativi dei giornali non sanno che farsene di queste insulse siglette mangia-spazio, ma il senso è comune. Ed è che uno dei più famosi e strapagati giocatori di basket del pianeta ha deciso di imbarcarsi in una lotta politica – estremista, un po’ scema e anche molto pericolosa – mettendo in gioco carriera, stipendio e una reputazione già intaccata da alcune uscite sulla terra piatta che per carità di dio è forse meglio tacere.
È un caso pressoché inedito per proporzioni, e implicazioni, nello sport mondiale.
Riassunto delle puntate precedenti, in breve: Irving non si è vaccinato e si ostina a non vaccinarsi. Non rispetta così le restrizioni dello Stato di New York, e quindi non può giocare le partite casalinghe del campionato Nba al Barclays Center di Brooklyn, dove giocano suoi Nets. La società lo ha messo fuori rosa, con tanto di ultimatum: “O ti vaccini o resti a casa”. Lui, per ora, resta a casa.
Irving non è un cestista qualunque. È il terzo dei “big three” della franchigia newyorkese, con Kevin Durant e James Harden. Con quei tre i Nets punterebbero al titolo. Ha guadagnato più di 160 milioni di dollari solo coi contratti Nba, e ha un accordo di sponsorizzazione monstre con Nike. È un sette volte All-Star, due volte All-NBA ed ex Rookie of the Year. Pur di non vaccinarsi ora rischia di perdere 200 milioni di dollari: circa 16 milioni di dollari in questa stagione e un’estensione del contratto di 186 milioni di dollari. Perché?
Secondo The Athletic quella di Irving non è una presa di posizione anti-scientifica (anche se ha effetti evidentemente non ponderati sull’universo complottista) ma è una vera e propria lotta politica.
“Quelli che conoscono Irving assicurano che in questo momento non è guidato dal denaro, non se ne preoccupa. Crede invece che ci siano questioni più grandi che hanno bisogno del suo sostegno. Irving crede di combattere per qualcosa di più grande del basket”.
Molteplici fonti vicine a Irving hanno detto a The Athletic che lui non è no-vax. Ma che “è sconvolto dal fatto che le persone stiano perdendo il lavoro a causa delle restrizioni vaccinali”. Il corrispettivo americano dei Green pass italiani.
“Irving pensa di sfidare il controllo percepito della società e dei mezzi di sussistenza delle persone. È una decisione che crede di essere in grado di prendere viste le sue attuali dinamiche di vita”.
“Kyrie vuole essere una voce per i senza voce”, ha detto una fonte del giornale.
La posizione di Irving non è dunque ritenuta anti-scientifica. E’ sociale. E tradisce tutti i limiti comunicativi e strategici d’una stramberia, soprattutto per il contraccolpo mediatico che produce. Ma è una storia più unica che rara nel superaccessoriato universo degli sportivi miliardari.
Al di là dell’oggetto della lotta in sé – un elefante ubriaco che devasta la cristalleria nella quale si muove barcollando – Irving è un animale in via di estinzione: uno capace di rinunciare a una montagna di soldi per un principio, per quanto distorto esso sia. Disposto a ragionare sulla propria carriera in termini di “eredità ideologica” più che di marketing. Così preso dalla difettosa percezione della realtà che lo circonda da volersene intestare una parte, facendo pesare la sua notorietà. Terribilmente naif, originale, dirompente. Incredibilmente sbagliato, cosa che aggiunge ulteriore peso alla vicenda.
Il mondo dello sport è pieno di esempi fragorosi di virtuosismo, di uomini che si spendono per le migliori cause. Ma Irving va oltre: il suo, più che un sacrificio, è un masochistico tentativo di impegno sociale. Deragliato verso un’aberrazione, ma rivoluzionario. “Esiste qualcosa di più grande del basket, o dei soldi”. Chi come noi è abituato alla tonnara retorica dei calciatori resta a bocca aperta. Che lingua è? Aramaico? Accadico?