Tra Lisbona e Doha, il racconto letterario di Pereyra: un calciatore che alla Juventus non ha combinato nulla e che vale 18 milioni. Forse è del Napoli.
Sostiene Pereyra di averlo conosciuto in un giorno d’inverno. Solstizio d’inverno. Una magnifica giornata d’inverno, soleggiata e ventilata, e Doha sfavillava. Pare che Pereyra stesse in panchina, non sapeva bene che fare, Pirlo era in campo, lui si trovava nell’imbarazzo di non sembrare sulle spine, non voleva apparire spazientito. E lui, Pereyra, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’inverno, con la brezza che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava davanti alla sua panchina, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte.
Perché? Questo a Pereyra è impossibile dirlo. Sarà perché suo padre, quando lui era piccolo, aveva un’agenzia di pompe funebri che si chiamava Pereyra La Dolorosa, sarà perché Pirlo era ancora in campo e non voleva saperne di uscire, sarà perché nessuno si era mai accorto che lui era argentino, ma il fatto è che Pereyra si mise a pensare alla morte, sostiene. E per caso, per puro caso, si mise a sfogliare una rivista. Sì, lì, in panchina, mentre si stava giocando Napoli-Juventus. Era una rivista letteraria, che però aveva anche una sezione di filosofia. Una rivista d’avanguardia, forse, di questo Pereyra non è sicuro, ma che aveva molti collaboratori cattolici. E Pereira era cattolico, o almeno in quel momento si sentiva cattolico, un buon cattolico, ma in una cosa non riusciva a credere, nella resurrezione della carne. Così si mise a sfogliare quella rivista, con noncuranza, perché provava noia, quando all’improvviso Allegri gli disse: “Scaldati”.
Sostiene Pereyra di aver incrociato lo sguardo assassino di Pirlo. Fece finta di nulla e tirò dritto. Una flessione, due flessioni. Tronco a destra, tronco a sinistra. Mani in alto, saltini, stretching. Una voce giunge dalla panchina: «Dai, spogliati». Lui si spoglia ed entra. Ha il 37 sulla maglia, come quella febbre che non è febbre, il minimo sindacale per non andare a scuola. Ma non sei niente. Non sei febbre né sei sano. Trentasette. Entra e di fronte a sé ha un tal De Guzman. Lo guarda, lo osserva, forse vorrebbe immedesimarsi in lui. Intanto De Guzman gli scappa via, Pereyra lo rincorre blandamente, lo osserva mentre crossa, guarda un centravanti argentino saltare e colpire di testa. Capisce che qualcosa è cambiato.
Sostiene Pereyra di aver avuto paura alla vista di Pirlo andare su e giù davanti alla panchina come un leone in gabbia. Non avrebbe voluto essere su quel prato verde in quell’istante. Lui stava in panchina e stava pensando alla morte. Gli tornava in mente, e non sa perché, Francesco Monteiro Rossi che non era nemmeno un calciatore. Si lasciò trascinare dagli eventi.
Sostiene Pereyra di aver detto no a quella pratica chiamata calcio di rigore. Ma che, a un certo punto, di essersi sentito chiamare. “Ora batti tu, poche storie”. E si è ricordato di quella volta che non voleva invitare una persona sconosciuta in quella squallida stanzetta di Rua Rodrigo da Fonseca, dove ronzava un ventilatore asmatico e dove c’era sempre puzzo di fritto a causa della portiera, una megera che guardava tutti con aria sospettosa e che non faceva altro che friggere. Non c’entra niente coi rigori, ma è così.
Sostiene Pereyra di essere andato a calciare dopo che Callejon lo aveva sbagliato. Doveva solo segnare. E vincere. L’unico verbo ammesso nella squadra che lo aveva acquistato: una certa Juventus. Pereyra sapeva che i mercati erano in agitazione, perché il giorno prima, in Alentejo, la polizia aveva ucciso un carrettiere che riforniva i mercati e che era socialista. Per questo la Guarda Nacional Republicana stazionava davanti ai cancelli dei mercati.
Sostiene Pereyra di essere andato sul dischetto e di aver calciato alto. Un incredulo Marchisio, che si era girato per scaramanzia, non credeva ai suoi non occhi. Finì che una squadra azzurra festeggiava con un allenatore evidentemente sovrappeso, mentre i filiformi della sua tornavano a casa a capo chino.
Il presidente era distrutto, sostiene Pereyra. Aveva delle occhiaie che gli arrivavano fino alle guance, e un’aria sfinita, come di chi non ha dormito. Pereyra gli chiese cosa gli era successo e il presidente gli disse: ma come, non hai saputo? hanno massacrato un alentejano sulla sua carretta, ci sono scioperi, qui in città e altrove, ma in che mondo vivi, tu che lavori in un giornale?, senti Pereyra, vai un po’ a informarti.
Pereyra si è informato. Gli hanno detto che il Napoli vorrebbe acquistarlo per 18 milioni di euro.
Sostiene Pereyra che si accomodò al tavolino sentendosi imbarazzato. Pensò fra sé che quello non era il suo posto.
Lo pensiamo anche noi.
p.s. La Juventus ha dovuto ridare Morata al Real Madrid per 19 milioni. Pereyra in due anni alla Juventus ha collezionato 68 presenze e ha segnato sei gol. Vanta dieci presenze nella Nazionale argentina, l’ultima nel 2015.