Con l’Atalanta sono otto i club a stelle e strisce. Fin qui il loro interesse è stato solo – legittimamente – il business facile. Senza riformare la governance del calcio, servirà a poco
Ora è ufficiale. Percassi ha venduto il 55% della Dea – la propria holding che detiene l’86% dell’Atalanta – agli americani. Nel comunicato ufficiale sono così definiti: un gruppo di investitori capitanati da Stephen Pagliuca, Managing Partner e Co-owner dei Boston Celtics, oltre che Co-chairman di Bain Capital, uno dei principali fondi di investimento al mondo.
Percassi scrive che la sua non è una mossa per cominciare il disimpegno. Anzi. Sottolinea il legame con il territorio. In Italia funziona così: non si sa perché, il legame col territorio, il discorso identitario, hanno una valore specifico. Su questo possiamo dire che in genere i diarcati nel calcio non hanno funzionato. A Napoli ne abbiamo avuto uno di bassissimo livello, con l’accoppiata tra Ferlaino decadente e Giorgio Corbelli all’epoca re delle televendite. Ma questi saranno problemi degli atalantini.
Quel che ci preme sottolineare è che salgono a otto le proprietà americane in Serie A. Milan, Fiorentina, Roma, Venezia, Spezia, Bologna, Genoa e ora Atalanta. A Roma il capitale era americano anche prima dei Friedkin, c’era Pallotta (socio come Pagliuca dei Boston Celtics) e il suo decennio non ha fruttato nulla: né dal punto di vista sportivo, né sotto il profilo economico-finanziario, né tantomeno sotto l’aspetto infrastrutturale visto il naufragio dell’operazione stadio. Rocco Commisso ha lanciato accuse roboanti agli Agnelli, dopodiché ha chiuso l’affare Vlahovic, ha intascato i suoi bei 70 milioni di euro e sta combattendo – come Pallotta – la sua battaglia per lo stadio. I soldi americani arrivano perché il calcio italiano è un’opportunità, è uno dei tanti tavoli su cui giocare una fiche. Sono investimenti per loro a basso costo.
E forse è questo il principale handicap. Investono nella Serie A perché poi possono rivendere al triplo, al quadruplo. Business. Rispettabile, per carità. Proprio per rendere questo business ancora più redditizio, varrebbe la pena che i nuovi investitori avessero una visione d’assieme, ossia la consapevolezza e la determinazione a cambiare la governance del calcio italiano. Fin qui, sono andati in ordine sparso. Giustamente oggi sul Corriere dello Sport Alessandro Giudice – osservatore illuminato degli aspetti finanziari del calcio italiano – ricordava che in Lega:
Percassi si è spesso trovato in sintonia con il fronte delle proprietà italiane guidato da Lotito: ad esempio, quando si è trattato di sabotare la media company tenendo i fondi di private equity fuori dalla porta e facendo la fortuna della Liga.
Otto proprietà statunitensi vuol dire il 40% della Serie A. Ora hanno la forza per imporre una visione diversa, professionistica, che liberi il nostro sistema calcio da liti da cortile ispirate esclusivamente al rapido raggiungimento di un proprio tornaconto (quasi sempre di bassissimo cabotaggio). Il calcio italiano è in crisi di appeal. In caduta libera. Solo momentaneamente salvato dall’effimera vittoria agli Europei. La Serie A offre uno spettacolo calcistico modesto, sono sì e no sette le squadre guardabili. Le altre sono noiose, scarse. Il calcio viene ancora concepito come una battaglia tra campanili. Siamo lontani anni luce dall’idea di creare un prodotto che attiri investitori e consumatori. Come avviene in Premier, come ovviamente negli Stati Uniti. Basta vedere quel che è successo con Dal Pino un vero manager che ha rapidamente salutato quel consesso di personaggi curiosi che è la Lega Serie A. Persino Gravina ha ammesso che gli ascolti tv del campionato non sono buoni. I diritti tv sono sovrastimati per quel che è lo spettacolo offerto. Per non parlare della preistoria dell’impiantistica, salvo qualche eccezione. E ovviamente senza dimenticare la più completa opacità sui bilanci e le modalità con cui vengono gestiti i club. Se l’Italia dovesse fallire la qualificazione mondiale, si aprirebbe una crisi difficile da gestire.
In questo contesto il fronte americano acquisterebbe rilevanza se riuscisse ad avere un ruolo politico nel liberare il sistema calcio dai brontosauri. Nel modernizzarlo. Nel farlo entrare nella contemporaneità. In soldoni, nel riformarne la governance. Altrimenti francamente serve a poco. Se non a mettere a segno legittime e fruttuose operazioni economico-finanziarie. Tanto di cappello ma poco interessante per chi ancora spera che anche in Italia il calcio possa diventare un’azienda all’avanguardia.