A Specchio: «Sono arrivato in Italia a tre anni, mi sento italiano, ma riflettere sul dolore dei miei avi mi ha migliorato come persona»

Specchio intervista Alfred Gomis, portiere del Rennes, in Francia. Gioca nella nazionale, con il Senegal di Koulibaly. Con lui ha vinto la Coppa d’Africa. Una storia singolare, la sua: aveva solo tre anni quando la famiglia si trasferì a Cuneo. Consiglia libri da leggere su Instagram, sono in tanti a seguirlo.
Racconta come iniziò a giocare a calcio.
«Una partitella giocata in strada sotto casa, due magliette arrotolate per delimitare la porta: passa un osservatore del Cuneo, chiede a me e ad altri bimbi di partecipare a un provino. Avevo cinque anni e volevo stare in attacco, fare i gol e non impedirli».
Crescendo, invece, ha seguito la tradizione di famiglia. Ha quattro fratelli, tutti portieri.
«A papà Charles era capitato di giocare in porta, in realtà accarezzò come difensore il sogno del calcio europeo: lasciò il Senegal per fare dei test con Rapid Vienna e Napoli, purtroppo un infortunio al ginocchio mandò le sue speranze in frantumi. Aveva 23 anni, decise comunque di fermarsi in Italia. Non fuggiva dalla miseria, era perfino iscritto all’università, ma sapeva, anche attraverso lavori duri, di poter costruire un futuro migliore per noi. Lys, il più grande dei miei fratelli, ha giocato con il Toro, è stato il primo portiere d’origine africana nella storia della Seria A: anche lui ha dovuto smettere presto per un problema al tendine e oggi fa il preparatore. Maurice è tesserato con l’Agia Napa di Cipro e Davidd, il più piccolo, a undici anni indossa già i guantoni: fa parte delle giovanili del Cuneo, altra tradizione di famiglia».
Con il Senegal ha vinto la Coppa d’Africa.
«La prima volta del Senegal: un’emozione indimenticabile. Dietro il successo c’è un gruppo unito, capace di resistere alle critiche e reagire sul campo dopo le difficoltà iniziali: nel 2019 avevamo perso in finale, volevamo riscattarci e regalare una gioia alla nostra gente».
Perché ha scelto di giocare nel Senegal visto che vive in Italia da sempre?
«Mio padre e mamma Anne Marie mi hanno insegnato l’orgoglio delle mie origini, ma sono arrivato in Italia a tre anni e mi sento italiano per formazione ed educazione. Penso, ragiono e mi muovo su basi acquisite in Italia. Con papà, scomparso troppo presto, avevamo parlato di un’eventuale scelta calcistica: il consiglio era semplice, ubbidire a quel che avrei sentito dentro, e davanti alla sua tomba ho deciso che se il Senegal avesse chiamato avrei detto sì. La scelta è stata influenzata dalle emozioni forti di quel viaggio: mi ha scosso visitare, sull’isola di Gorée, di fronte a Dakar, la maison dove venivano ammassati gli schiavi destinati all’America: venduti, o se malati gettati in mare. Ho riflettuto sul dolore dei miei avi e ho provato, guardandomi intorno, sensazioni che mi hanno migliorato come persona: altro è dire “pensa a chi è meno fortunato”, altro è respirare quella minore fortuna attorno a te».
Gli viene chiesto se è mai stato vittima di razzismo, in Italia.
«Qualche episodio mi è capitato, ma la società sta migliorando: il fenomeno non è più ignorato, se prima si invitava a lasciar correre oggi si chiede di combattere. I razzisti sono ignoranti o vigliacchi, ma a volte solo persone che vogliono finire al centro dell’attenzione: pensano di essere divertenti, invece, per fortuna, sempre più spesso vengono considerati dei cretini. La crescita culturale è figlia della globalizzazione, oggi le coppie miste sono accettate: sono stati compiuti passi importanti, certo rimane tanto da fare».
La Francia è più avanti nell’integrazione?
«Sì, e il calcio è uno specchio: la nazionale schiera tanti calciatori di colore. Siamo alla quarta, quinta generazione di immigrati e questo incide sulla mentalità. Nello spogliatoio del Digione sono stato testimone di un episodio che ho trovato bellissimo: un calciatore arrivato da poco si rivolse a un compagno chiamandolo scherzosamente “negretto”: era chiaramente una battuta, non c’era alcun intento offensivo, eppure in tanti gli intimarono di non permettersi mai più. Ed erano tutti calciatori bianchi».
Sente la responsabilità di essere un modello per i bambini?
«Tutti noi calciatori lo siamo, purtroppo passa il messaggio di una categoria di viziati e i primi a contribuire siamo noi mostrando solo case, macchine e orologi di lusso. Dovremmo far vedere chi siamo dentro, chi eravamo e che fatica abbiamo fatto per arrivare a quello status. Senza dimenticare mai che il calcio non è il mondo».