Lui è commovente per quanto si sbatte, è spesso immarcabile. Purtroppo anche per i suoi compagni. “Fa reparto da solo” si sta trasformando da elogio in dannazione
Pian piano che affievolisce la spiacevole sensazione d’averci rimesso ambizioni e salute, sul selciato di Napoli-Milan restano i passi – pesanti, profondi – di Victor Osimhen. Come se avesse arato il prato lasciando binari di fango. Tracce che i compagni prima non hanno intuito e poi non hanno seguito. Commovente nella sua semplicità d’attaccante instancabile, per una volta – un’altra – sterile.
Mentre tutti gli analisti rinfacciano al Napoli le sue mancanze (quella d’un campione d’esperienza fatto e finito, soprattutto) c’è invece una abbondanza che la squadra fatica a gestire: lui. Osimhen è sovrabbondante persino a se stesso. E’ prevaricante. Toccante, sì, quando sgomma per 30 metri per andare a placcare un pallone inutile, ma allo stesso tempo fa incazzare. Perché evidenzia la difficoltà altrui di sfruttarlo, uno così. Avercelo ti impone l’onere di usarlo bene. Ce l’hanno fornito sprovvisto di libretto d’istruzioni, quello è.
E’ certamente una questione tattica (per la quale rimandiamo all’analisi di Fasano), ma anche congiunturale: è come se il Napoli e il suo bomber non si fossero ancora trovati. Di più: essendo Osimhen un giocatore in evoluzione, la squadra non riesce a metterglisi in scia. Ci prova eh. “Fa reparto da solo” si trasformando, però, da elogio in dannazione. Se ne sta lì, a rimbalzare tra i difensori avversari come una pallina rimbalzina. Pronto all’innesco, a volte in falsa partenza. Sbatte e abbatte, strappa, si contorce, punta e ribalta. Un finimondo. Il caos, spesso.
Osimhen scatta e insegue con una continuità logorante. E’ immarcabile. Ma il concetto vale per chi è chiamato ad opporglisi come per chi in teoria dovrebbe servirlo. Il Napoli non ha ancora trovato il codice per decriptarlo.
C’è stato un momento, tra la fine della scorsa stagione e l’inizio di questa, in cui questo patimento sembrava ormai elaborato. A settembre ha fatto sette gol in sei partite, segnando consecutivamente in cinque gare tra campionato e coppa prima della partita con la Fiorentina. Poi c’è stata una leggera flessione, una faccia devastata, il Covid in Africa. Rivederlo mascherato ingaggiare un duello fisico dietro l’altro, come se i traumi fossero una debolezza altrui, è spiazzante. Ha ripreso a segnare di testa, soprattutto. Segno che la testa, pur segnata dalle viti, è sempre quella. Spalletti ne parla ad ogni conferenza stampa, quasi come una seduta d’analisi: un continuo rapporto sulla rifinizione dei suoi spigoli, caratteriali e tattici. Poi arriva il Milan, lo scontro diretto perduto, e la sensazione di averlo usato – di nuovo – poco e male.
Il Napoli sfrutta la sua mescola di potenza e velocità quando lo lancia in verticale. È l’Osimhen-base, quello: è una scheggia, negli spazi è devastante. Non ha nemmeno bisogno di essere preciso, per far male. Sfonda. Ma anche quando la costruzione dal basso lo lascia lì davanti in stand-by tra i centrali avversari, lui lo fa con una intensità, una perseveranza, una continuità, trascinanti. Solo che, in effetti, non trascina davvero.
Ci provano, gli altri, a restare attaccati alle briglie. Si vede. Ma proprio non ce la fanno, spesso. Ci sono momenti in cui Osimhen si è già fiondato sul primo palo lasciando sul posto il marcatore ma il cross non arriva, indugia, si perde in un tempo che non è il suo. Altri in cui si infila tra i centrali ma i compagni invece della profondità trovano rifugio all’esterno o – peggio – ricostruendo da dietro. Una, due, dieci volte a partita. Uno spreco a ripetizione. Fino a che – due son le cose – o lui la risolve per iniziativa solitaria (come a Cagliari, di testa, nell’abulia che lo circondava) o semplicemente si torna nello spogliatoio tutti assieme. Gli altri a capo chino, lui sbattendo i piedoni, come un bambino di un metro e 85.
Il vero scatto che il Napoli deve imporsi è alla rincorsa di Osimhen. E’ un po’ la scoperta dell’acqua calda, certo. E per questo brucia assai.