Da noi i giovani cantanti ricordano i Borbone, gli esperti dicono che Benzema va gestito e orsini ed poterai operai ci illustrano la geopolitica
Popocorn pronti per me domani sera, vedrò la mia prima finale di Eurovision.
Dell’esistenza di questa kermesse non ero a conoscenza fino a diversi anni fa allorché, andando via dall’Italia, i colleghi europei, che la seguivano e si sorpresero della mia ignoranza, me ne parlarono. Ho deciso di seguirla perché è diventato insopportabile, negli ultimi anni ed in special modo nei più recenti mesi, la cappa di vecchiume che si è fatta sempre più forza organica nel continente, in particolare nel nostro paese, spargendosi capillarmente ovunque, dalla politica alla vita sociale, al calcio.
Abbiamo imparato che il vecchiume dell’immobilismo non è legato ad alcun dato anagrafico preciso: esso deriva principalmente dallo stato di relativa bambagia in cui noi europei abbiamo scorrazzato negli ultimi decenni, avendo alle spalle le grandi tragedie del secolo scorso alla cui risoluzione non abbiamo contribuito punto ma delle cui positive conseguenze abbiamo fatto larghissimo uso e abuso. In Europa, come altrove, si può nascere già invecchiati, immediatamente affranti da un tasso di mutamento senza precedenti nella nostra società, al quale nessun essere umano è davvero pronto. Guardandola da lontano, l’Italia, quella generale tanto quanto quella del pallone, assomiglia sempre più ad un viaggio millenario nel tempo in cui ci si riesce a lamentare di tutto, dal VAR all’età minima di assunzione per le donne, nel costante e disperato tentativo che le persone non mutino, che le cose si cristallizzino, che le circostanze si mummifichino.
L’Eurovision, ci confermano i sapienti musicologi (che magari, per un po’ e per sbarcare il lunario, hanno fatto da giudici o autori ai reality show musicali), è un dozzinale show che violenta questa forma d’arte. Probabile che non se ne ricavi alcunché di memorabile. Ma è anche un momento in cui la parte più affamata di domani può gettare nel circo mediatico globale i temi che i vecchiardi considerano astrusi – o, come oggi va assai di moda definirli, nella sindrome di accerchiamento dei vetusti, i temi figli dell’asfissiante cosiddetto “politicamente corretto”. La realtà è che nelle scuole dei nostri figli ci sono già persone, appena adolescenti, che hanno cambiato genere sulla loro carta di identità o ai quali, essendo non binari, i compagni di scuola si riferiscono con il pronome inglese they al singolare. I vecchiardi, sotto l’ombrello dell’oppressione politically correct, le ritengono minuzie lessicali, guerre di pronomi da effeminati, ma i diretti interessati (che sarebbero gli unici da interpellare, a riguardo) la pensano diversamente. Mi ha fatto piacere osservare, nelle prime serate del festival, un crogiolo di gender fluidity nel quale, serenamente, non mi ci raccapezzo – la mia mancanza di orientamento è la misura del tempo che passa, e fortunatamente. Mancano i dirigenti sportivi che parlano delle banane, i presidenti delle squadre di Serie A che assecondano con accondiscendenza il razzismo dei soliti famosi pochi, i calciatori omosessuali che non possono dire di esserlo per non turbare le mamme, i papà, gli spogliatoi, le carriere. E manca anche il cantante napoletano di moda che, al culmine della sua anagrafica ed artistica giovinezza, fa il video su Napoli ricordando i Borbone, in uno slancio di futuro.
La vigliacca baldanzosità dei vecchiardi europei ha dato il meglio di sé, nelle ultime settimane, sul tema della guerra in Ucraina – l’Italia ha riscoperto un esercito nutrito e per niente silente, una armata Brancaleone di ex lottatori continui, di ex poteri operai, di nuovi orsini, di figli di ex segretari di partito che, non avendo esattamente mai lottato per molto, hanno deciso di insegnare a chi lotta davvero come la lotta vada condotta. Un po’ come c’è da tempo un esercito di conoscitori di calcio di professione (poiché altra, nei loro curricula, non se ne conosce) che insegnano ad allenatori e calciatori come si raggiunge la mentalità vincente, o come sia facile allenare Benzema – che va solo “gestito”, per la precisione. Almeno in Eurovision di guerra e di lotta, quella che attraversa tragicamente il continente, si parlerà, perché gente che lotta e muore ne esiste e va a cantare su quel palco e magari, con tanti saluti ai benpensanti, la band ucraina se la aggiudica, questa edizione, dopo che quella italiana che si è aggiudicata la precedente, i Maneskin, durante il Coachella Festival, il signor Putin lo hanno già mandato dove gli si compete.
L’Italia rimane la nazione dei papi franceschi, dei papi buoni, delle mani che benedicono e di quelle degli alpini che toccano il sedere alle donne che mostrano difficoltà a capirne l’alto valore cameratesco – rimane la nazione vigliacchetta che vuole avere il diritto di gridare merda ad ogni rinvio del portiere e archiviare la nobile pratica nello sfogo necessario allo stare assieme.
Ma non è necessario essere così. Per cui, lasciando sfilare pure l’inizio di una nuova estate durante la quale disquisiranno del domicilio campano di un povero allenatore del Napoli, sabato sera preferisco il casino dell’Eurovision. Meglio delle finali di Coppe Italia. Meglio delle rivoluzioni sempre annunciate. Si salterà per cantare parlando anche di guerra, si voteranno persone improbabili, si gioirà di vita e di sesso. Si starà sulle scatole a tanti, facendo loro ciao ciao con la manina mentre si allontanano sulla propria locomotiva a vapore. Insomma, un po’ di napolismo continentale.