Il suo modello dirigenziale quasi mormone è rivoluzionario in Serie A: sobrio, marziale, anti-ultras. Tutto cominciò con la vittoria su Rangnick
“Paolo”. E poi “Paolo”. Sì, “Paolo”. Ah, “Paolo”. PaoloPaoloPaoloPaolo. Non Maldini. Paolo-e-basta. Sembrava di ascoltare una vecchia canzone di Daniele Silvestri. Messe in fila, le interviste post-scudetto del Milan sgranano una cantilena con un nome solo. Dediche, complimenti, richiami, auguri. Il Milan fatto a forma di Maldini esplode nella sera della festa, come un’eruzione pliniana. Anche se lo sapevan tutti, era tacito. I giocatori, l’allenatore, il presidente, un coro che mette a verbale la denuncia in flagranza di trionfo: è merito suo. Chiedete a Paolo, come ha vinto il Milan. Lui smentirà, ritraendosi. L’egolatria non lo riguarda.
Paolo Maldini è il presidente della repubblica indipendente degli ex campioni: quelli che hanno preso il potere panchine e poltrone dirigenziali a vario titolo. Silenzioso, altero, aristocratico, marziale. A differenza d’altri (quelli che Benitez ha definito “mediatici, pieni di follower”) Maldini ha imposto alla Serie A (che ovviamente non se n’è accorta) un modello dirigenziale quasi mormone.
Il Milan post-pandemico è una specie di fiore sbocciato da un terreno agro e infertile. Seminato nel giorno nefasto di Atalanta-Milan 5-0. L’ha confermato pure Scaroni, che era a Bergamo. Ed è tutta opera sua: il filotto vincente di Pioli, il reso preventivo del progetto tedesco di Rangnick, la ricostruzione. Ibra capitano-non capitano-poco giocatore. Lo scambio Donnaruma-Maignan, i giovani al centro di tutto, coi vecchi (Giroud, pure) a tenerli d’occhio. Sua la manifattura. Sull’etichetta dello scudetto c’è scritto “made in Maldini”.
Mentre altrove i presidenti e i dirigenti poco aderenti alle logiche ultras vengono massacrati dai tifosi, Maldini ha disinnescato pure quella retorica lì: gli ultras ora osannano Paolo, l’anti-ultras verticale. L’aneddotica se lo ricorda ancora a Malpensa a chiamare “poveri pezzenti” quelli che offendevano i compagni al ritorno dalla disfatta di Istanbul. Gli stessi che gli rovineranno l’ultima partita a San Siro, fischiandosi vicendevolmente mentre srotolavano gli striscioni dell’ignominia. Li riportiamo per dovere di cronaca e malcelato sadismo:
“Per i tuoi 25 anni di gloriosa carriera sentiti ringraziamenti da chi hai definito mercenari e pezzenti”
“Grazie capitano: sul campo campione infinito ma hai mancato di rispetto a chi ti ha arricchito”
Dolente, Maldini si spiegò così (non avendo tra l’altro alcuna voglia di spiegarsi, né pensando di doverlo fare):
“Avevamo giocato una finale stupenda, nettamente meglio del Liverpool. All’aeroporto siamo stati contestati: dovete chiederci scusa. Io giocavo da una vita e dovevo chiedere scusa ad un ragazzo di 20 anni? E poi scusa di cosa? Di aver perso una perso una partita giocata in modo straordinario? Per inciso, quella sera il Liverpool ci surclassò a livello di tifo”.
Mentre Elliott sta vendendo la società ad un altro fondo per un miliardo e trecento milioni di euro, Maldini è un totem. Garantisce la separazione delle carriere. L’uomo è lo stesso che scrisse un lungo post su Facebook per giustificare il suo no alla fu proprietà cinese, rifiutando di diventare un sottoposto del direttore sportivo Mirabelli. Chiosando così:
“Ribadisco anche che i miei valori e la mia indipendenza di pensiero saranno per me sempre più importanti di qualsiasi impiego”.
Maldini, composto pure quando marcava Maradona, ha calato una gentile dittatura morale. S’è smarcato (conosce il mestiere, diciamo) dagli equivoci del primo anno con Leonardo e Giampaolo e poi ha preso a navigare il mare della credibilità. Quella che non ha mai accennato a perdere, figlia di un carisma e di una rettitudine che gli riconoscono – per negazione – persino gli ultras, i “poveri pezzenti” che si illudevano di arricchirlo.
Paolo è pur sempre figlio di Cesare. Si fa ricorso ancora all’aneddotica per ricordare la mistica del primo provino in rossonero, quando l’allenatore dei pulcini chiese a così tanto padre “Dove vuole che lo faccia giocare?”. “Faccia lei”, Cesare si voltò e se ne andò. Chi è cresciuto, e ha vinto, in tanta sobrietà costruisce il futuro a sua immagine e somiglianza.
S’è preso, infine, il suo tempo. Dopo aver atteso a svernare pigramente sulle spiagge della Florida mentre il Milan arrancava. Non era un esilio, era una camera di compensazione. Parlava pochissimo, ma sottolineava che all’ultimo Milan di Berlusconi e Galliani mancava la visione strategica. Lui vedeva una rotta.
Quando tornò a Milanello sotto braccio con Leonardo – scrive nella sua biografia – si sentiva “inadatto”, “dovevo imparare un lavoro nuovo. Leonardo mi ha insegnato tanto, ma ho iniziato a sentirmi davvero calato nel ruolo solo dopo che Leo se n’è andato”. Leonardo (che ora se n’è andato pure dal Psg) aveva fatto in tempo a buttare un sacco di soldi su Higuain e Caldara, poi Paquetà e Piatek. Con Bonan fu un’altra storia: “Con Zorro ci completavamo, lui seguiva gli attaccanti e io i difensori”.
E’ rimasto solo lui. Perché la vicenda Rangnick, il guru cooptato da Gazidis a loro insaputa, ruppe tutto. Boban, mercuriale, non si trattenne. Maldini restò in marcatura. Vennero Ibra, Pioli, la pandemia. La storia che adesso tutti raccontano dappertutto. La balbuzie è un passato. Ora basta dire un nome facile facile: Paolo. E ripeterlo ad oltranza: PaoloPaoloPaoloPaolo.