Domani al Mann “Calcio e neoliberismo”. Intervista a Corrado Del Bo’, filosofo, studioso e Professore dell’Università di Bergamo
Domani al Mann si discuterà dell’impatto che le politiche neoliberiste, prevalse in Occidente negli ultimi quarant’anni, hanno avuto sul mondo del calcio, esaminando, in particolare, le trasformazioni del mercato, degli assetti giuridici e di quelli geopolitici. È il convegno «Calcio e neoliberismo», di cui abbiamo scritto già nei giorni scorsi. Parteciperanno autorevoli studiosi dell’Academic Football Lab, un gruppo interdisciplinare di ricerca composto da circa cinquanta ricercatori e studiosi appartenenti a varie istituzioni scientifiche italiane.
Mercati, regole e poteri, dunque. Una discussione a cui contribuirà, tra gli altri, il professor Corrado Del Bo’, uno dei maggiori studiosi italiani nell’ambito delle teorie della giustizia, Professore ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università di Bergamo. Del Bo’ è un appassionato di calcio, e al calcio ha dedicato già diversi tra i suoi lavori. Interverrà assieme ad Orsetta Giolo, in uno dei dialoghi previsti dal programma dei lavori. In particolare, toccherà diversi tasti relativi alla trasformazione delle regole non solo del settore calcio, ma fin dentro il gioco del calcio.
«Fino all’inizio degli anni 90 avevamo un gioco diverso sotto molti aspetti, ma anche sotto l’aspetto regolamentare. Ci sono state almeno tre modifiche delle regole che hanno influito pesantemente sul gioco: il passaggio ai tre punti per la vittoria, la possibilità di effettuare le tre sostituzioni, adesso incrementate a cinque – ma fu più importante al passaggio alle tre – ed il divieto per il portiere di raccogliere la palla con le mani sul passaggio del compagno. Queste modifiche furono giustificate con l’intento di rendere più spettacolare il gioco. Prendiamo per buona questa giustificazione, ma poi di fatto è accaduto non solo che il calcio sia stato reso più adatto a un pubblico televisivo, ma anche che siano state favorite le squadre più forti»
Come?
«Potremmo dilungarci molto sui passaggi attraverso i quali questo è avvenuto, ma volendo fare una sintesi brutale potremmo dire che queste tre regole, insieme con altre modifiche sistemiche, hanno contribuito alla concentrazione del potere calcistico. Secondo il mio parere, non è un caso che la biodiversità calcistica si sia molto ridotta e che vincano sempre le solite. Naturalmente si tratta di trasformazioni inserite in un’ordine più vasto, caratterizzato da una deregolamentazione complessiva. Ma di certo c’è stato un riassetto del sistema. Lo provano le stesse società quotate in borsa. Non sono uno di quelli che dice che lo spettacolo oggi è peggiore. Secondo me no, secondo me mediamente i giocatori sono più bravi che in passato, si gioca a velocità molto più alta, devono effettuare movimenti più complessi, però rimane che questa ristrutturazione del sistema abbia certamente penalizzato il pluralismo dei vincitori, la biodiversità del calcio.
Il professore Del Bo’ si occupa del calcio come problema filosofico. Uno dei suoi lavori, «La partita perfetta. Filosofia del calcio» (UTET, 2018), ha l’ambizione di raccontare «il vero spirito del gioco», nascosto dietro le discussioni su moduli e schieramenti, tattica e calciomercato, e che poi ritrova in quell’emozione rituale che ogni tifoso celebra almeno una volta alla settimana durante i novanta minuti. Una passione che definisce «insensata», «innaturale». Una passione insensata e innaturale che probabilmente mal si rapporta con la trasformazione neoliberista del calcio.
«Ho scritto La partita perfetta insieme a Filippo Santoni De Sio. Non abbiamo trattato specificatamente i temi della trasformazione neo-liberale. Ma il punto è che si è passati – ed è una cosa un po’ generica – dal tifoso fedele al tifoso consumatore. Non è più una questione di fede ma di fidelizzazione del tifoso, lo scrive anche Spagnolo in Contro il calcio moderno. Il tifoso oggi è prevalentemente tifoso da divano. Il calcio è in televisione tutti i giorni della settimana: non c’è bisogno per seguirlo di andare allo stadio a prendere il freddo. Oggi è una minoranza che va allo stadio. Questo rende il calcio un fenomeno che può essere fruito (e spesso è fruito) individualmente: davanti allo smartphone, al tablet, alla tv. Prima invece poteva essere fruito solo in maniera collettiva, allo stadio. Allo stesso tempo, complici gli aumenti dei prezzi, gli stadi sono oggetto di gentrificazione. Per andare allo stadio bisogna spendere un po’ di soldi, e alla fine il consumo di calcio allo stadio è diventato – non un bene di lusso, non arrivo a dirlo – un costo importante. In tutto questo, l’impressione che un po’ si ricava osservando le generazioni più giovani è che il tifo sia una sorta di “carta fedeltà” verso una squadra e non più lo stesso tifo che invece caratterizzava generazioni come la mia. Lo dico senza dare un giudizio, senza pretendere che prima fosse meglio. Semplicemente, il tipo di rapporto che si crea con le squadre di calcio somiglia al tipo di rapporto – forzando un po’ – con i supermercati. Questo si vede anche nella diffusione del merchandising, che prima non era un fenomeno gestito centralmente dalle squadre, era una roba molto più casereccia. Oggi le squadre di calcio sono trasformate in aziende che ovviamente competono per un business, ma nel far tutto questo la dimensione economica fa un po’ perdere di vista l’elemento identitario tipico del passato. L’impressione è che i tifosi siano trattati da clienti»
L’introduzione del Var, in questo senso, è un tema particolarmente spinoso. Da una parte, se utilizzato con la dovuta attenzione, l’assistente «tecnologico» ha le potenzialità per migliorare l’esperienza degli «spettatori» del calcio (dei clienti, si), riducendo significativamente gli errori umani. E contemporaneamente può ridurre – per il tifoso – il peso dello sconforto per una partita persa con un’azione dubbia. Dall’altra, però, strozzare l’esultanza per un gol (in attesa di un check) o discutere dei millimetri su un fuorigioco può toppare poi eccessivamente con quella che prima abbiamo definito passione «insensata ed innaturale», ch’è il vero motivo per cui – nella stragrande maggioranza dei casi – si assiste alle partite di calcio?
«Proprio sul Var abbiamo scritto un breve saggio, ancora con Filippo Santoni De Sio. È un saggio che comparirà nel volume Visioni di gioco, curato da Maurizio Lupo e dall’Aflab. Affrontiamo esattamente questo tema. Io direi due cose»
La prima.
«Il Var è ancora un fatto relativamente nuovo. Non appena ci saremo un po’ di più abituati, ci adatteremo al Var e adatteremo la nostra emozionalità al Var. Quindi, impareremo ad esultare in presenza di una conferma del Var. Non credo che perderemo l’esultanza al momento del rigonfiamento della rete, che prima ne era l’apice…credo che piuttosto aggiungeremo l’esultanza della conferma, per così dire. Impareremo a gestire la cosa, insomma. Con un po’ di disagio, ma ce la faremo»
La seconda.
«Il Var è la naturale conseguenza del calcio televisivo. Noi non possiamo pensare oggi, con il calcio che è visto prevalentemente in televisione, di non avere uno strumento come il Var. Basti pensare che nel giro di pochi secondi la maggior parte degli spettatori si rende conto se c’è stato un errore (anche piuttosto grossolano) sfuggito agli occhi dell’arbitro. E se il calcio diventa uno spettacolo televisivo, come è diventato, ecco che il Var diventa necessario. Perché diventa inaccettabile che l’esito sia determinato da un errore da parte dell’arbitro. Finché il calcio era un fenomeno da stadio le persone non si accorgevano dell’errore, se non dopo, a casa, rivedendo le immagini… ma era tutto molto più diluito. Con gli strumenti sofisticati di oggi, invece, l’impiego della televisione anche dentro lo stadio è una conseguenza logica e necessaria»
Sempre a proposito di regole: tempo effettivo. È una richiesta che oramai viene da più parti. Dagli allenatori, da diverse società. Anche il «tempo effettivo» può essere un’arma a doppio taglio. Da un lato può riportare il calcio ad una dimensione più legata ai valori dello sport, dall’altro forse c’è un rischio di snaturare ulteriormente un rito «secolare»?
«La trasformazione, detta in due parole, è “da rito a spettacolo”. E ogni trasformazione da rito a spettacolo comporta inevitabilmente la perdita di qualcosa. Possiamo chiamarlo sapore, romanticismo, magia, come volete. Dal mio punto di vista, questo tema del tempo effettivo in realtà rischia di essere “molto rumore per nulla“. Già oggi le partite durano attorno ai 60 minuti. E già oggi il calcio non è più un rito. Sarebbe, al massimo, come dare una picconata ad una casa già in macerie. Il tempo effettivo sarà semplicemente un altro passo in un percorso che viene da lontano. Al di là degli aspetti simbolici, io credo che andare in questa direzione non comporterà alcun cambiamento epocale»
Il Professore Del Bo’ si definisce «illuminista». Nella presentazione di uno dei suoi saggi, «Dove va il calcio italiano?» (Thedotcompany edizioni, 2017), c’è scritto che l’obiettivo è «delineare l’importanza di una cultura calcistica, ancora prima dell’idea che esso, il calcio possa essere un mestiere». Sembra un’affermazione in totale dissonanza con le trasformazioni di questo sport nell’epoca neo-liberista…
«Se il calcio è perfettamente all’interno delle dinamiche della società capitalista è evidente che è prima di tutto settore economico ed azienda. Questo comporta che ci sono una serie di valutazioni economiche che prevalgono rispetto alle valutazioni squisitamente tecniche. In fondo, se ci pensiamo, certi scambi di giocatori non paiono – dall’esterno, da appassionato – avere alle spalle una logica calcistica, ma solo economica. Si potrebbero fare tanti esempi. L’impressione che si ricava osservando le vicende del calcio nostrano è che a volte si accetta di perdere qualcosa sul piano della forza calcistica in cambio di operazioni vantaggiose dal punto di vista economico. Ci sono anche degli investimenti su giocatori che favoriscono la vendita del merchandising, ma che magari vengono inseriti nel tessuto di una squadra solo a svantaggio di altri. È chiaro che aumentare il fatturato può avere delle ricadute anche in termini di rafforzamento della squadra. Investimento calcistico ed economico non sono necessariamente in conflitto, ma nel momento in cui le società diventano aziende questo può accadere. Non c’è più il mecenate di turno a pagare le spese, e dunque bisogna fare anche i conti con questa realtà. L’arrivo dei fondi sarà un altro elemento di rinnovamento. Un altro passaggio importante. I fondi operano su una logica esclusivamente economica. Oggi non si parla più di rafforzamento della squadra ma di rafforzamento del brand, per rafforzare il valore economico. E possiamo avere paradossi di società che non vincono ma che sono delle potenze economiche. Il caso clamoroso è il Manchester United, che alla fine galleggia ma non vince nulla da anni… eppure ha un fatturato enorme. L’idea è che obiettivo economico e obiettivo agonistico spesso convergono, ma talvolta divergono. E questo è esattamente a causa dell’inserimento del calcio nelle dinamiche capitaliste, ed essendo il capitalismo odierno fondato dentro l’ordine neoliberale e neoliberista, emerge questa idea del calcio come un calcio neoliberista. Attenzione, però, perché il problema non è che i giocatori guadagnano troppo (in realtà spesso guadagnano troppo), è proprio un problema di sistema. Che rende – come ho detto prima – sempre più difficile variare i vincitori, che favorisce le concentrazioni di potere e la correlazione tra spendere e vincere»
Corrado Del Bo’ è dichiaratamente juventino. È anche tra gli autori di un libro sulla storia bianconera (1897 Juventus FC: Le storie, Hoepli, 2020). La Juventus è uno dei tre club che ancora non rinunciano formalmente al progetto Superlega…
«E la Superlega è un progetto perfettamente coerente con questo modo di essere del calcio odierno. In un certo senso, l’idea è di massimizzare le rese economiche saltando gli enti regolatori (in questo caso, l’Uefa). Il dibattito si è avvitato attorno alla moralità degli autori in campo, ma è un dibattito modesto, ovviamente. Il punto piuttosto è: quale tipo di competizione vogliamo nel mondo nel calcio? Una competizione aperta, almeno in linea teorica, a tutte le squadre, in cui tutte le squadre possono vincere la Champions? Oppure vogliamo un modello tipo Eurolega di basket in cui si crea una specie di club al quale possono accedere solo i soci permanenti e gli invitati, discrezione di questo club? Io preferisco il primo modello. Naturalmente, la direzione verso la quale si sta andando è un’altra: l’asticella di competitività si alza sempre di più. Anche la riforma della Champions League mantiene aperta la competizione ma ancora una volta alza l’asticella, perché poi alla fine il punto dello sport è che tu puoi avere delle annate fallimentari, ma nel momento in cui queste si abbinano a rovesci economici – e per certe squadre non partecipare alla Champions è un salasso economico – allora è chiaro che devi mettere in atto delle strategie per minimizzare questo rischio. Questo comporta il cercare di restringere sempre di più la competitività. E a mio modo di vedere è un problema. Poi ovviamente come spesso accade la contesa è economica: il punto è che la Superlega non era alternativa ai campionati nazionali ma alla Champions, cioè alla competizione di punta»