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Olivier Dacourt: «I giocatori spesso indossano una maschera, altrimenti sarebbero spacciati»

L’ex mediano di Roma e Inter a Sportweek: «Henry quando faceva gol non sorrideva mai perché il padre da piccolo gli diceva che aveva giocato male»

Olivier Dacourt: «I giocatori spesso indossano una maschera, altrimenti sarebbero spacciati»

Sportweek intervista Olivier Dacourt. Ex di Strasburgo, Everton, Lens e Leeds, nel 2003 passò alla Roma e, nel 2006, all’Inter fino al 2009. Poi il passaggio al Fulham e la chiusura di carriera, nel 2010. Oggi ha una società di produzione a Parigi. Ha già prodotto tre documentari sullo sport. Il primo, del 2017, si chiama Ma Part d’Ombre (Il mio lato oscuro). Racconta le difficoltà che incontra un calciatore nella sua vita.

«Li conosciamo per quello che sono in campo, ma non fuori. Spesso quello che subiamo da piccoli forma poi la nostra personalità. Anche noi abbiamo una maschera, se no saremmo spacciati».

Nel documentario ci sono Cassano, Titi Henry («che quando faceva gol non aveva mai il sorriso, perché il padre da piccolo gli diceva che aveva giocato male»), Abidal «che di fronte alla malattia da giocatore si è sentito una persona normale» e Ribery «con la sua vistosa cicatrice sul viso, chiamato “cattivo” a scuola dai compagni», Ibra, che in Svezia «mangiava solo una volta al giorno, venendo discriminato per il cognome» e Adebayor «aveva i problemi di
soldi e famiglia».

Nel 2019 è stata la volta di Je ne suis pas un singe (Non sono una scimmia), sul tema del razzismo. C’è Matuidi e i cori subiti a Cagliari quell’anno, ma anche Eto’o, Vieira. E Balotelli, che racconta come già a 11 anni si sentisse urlare
«negro, torna al tuo paese» o di quando a 17, in un Inter-Juve, «volevo solo piangere».

Dacourt spiega:

«Lo stadio è lo specchio che riflette i problemi sociali del Paese. E anch’io, nato da papà bianco e mamma nera, ho sofferto di razzismo».

E’ dello scorso dicembre, invece, Papa (Papà), sulle difficoltà dei figli di sportivi importanti.

«In Francia mi ricordano più per i documentari che per il calcio. Io mi diverto, e dopo gli oltre 20mila messaggi di complimenti ricevuti per il primo docu, sono andato avanti».

Nel 2002 fu ad un passo dal passare alla Juventus.

«Edgar Davids doveva passare alla Roma ma rinunciò, quattro mesi dopo andai io. Se sono dispiaciuto? Per niente, volevo essere allenato da Capello».

Racconta l’esperienza con il tifo giallorosso.

«Nel 2004, prima del derby di ritorno, i tifosi entrarono a Trigoria e appesero uno striscione “A voi la scelta: o il paradiso o l’inferno”. Uguale prima del 4-0 alla Juve, dove segnai da fuori, eravamo primi ma non erano contenti».

L’anno dopo alla Roma arrivò Gigi Delneri.

«Si presentò da generale, dicendo: “non voglio sentire vaff.., lavorate a testa bassa e pedalate”. Nemmeno un’ora dopo nella partitella Cassano subisce fallo bestemmia in barese ed esce dal campo. E noi tutti a urlargli per scherzo: “Antonio, sei fuori rosa”»

Poi ci fu l’Inter, dove, nel 2008, arrivò Mourinho:

«Non ero nei suoi piani, ma nessun dispiacere. Quell’estate gli dissi: “rimango, e ti faccio cambiare idea”. Non fu così, infatti a gennaio andai al Fulham».

Tra i compagni più forti con cui abbia giocato mette Adriano.

«Un ragazzo squisito, distrutto per la morte del papà. Con i compagni andavamo a casa sua, a Como, dove viveva con nonna e mamma. Cercavamo di tirarlo su, ma quando era solo stava male. Gli mancò qualcuno che gli dicesse che cosa andasse bene e cosa no».

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