L’ex Milan si racconta a The Players Tribune: «Non andavo a tante feste quanto dicevano, non è vero che non avevo voglio, ero giovane, mi sentivo solo».

In una lettera pubblicata su The Players Tribune, l’ex attaccante del Milan, Alexandre Pato, ripercorre la sua carriera dai momenti più belli a quelli più brutti.
«So cosa state pensando. L’ho sentito dire per 10 anni. “Cosa è successo a Pato?”. “Perché Pato non ha vinto il Pallone d’Oro?”. “Perché Pato era sempre infortunato?” Mah. Avrei dovuto rispondere a queste domande tempo fa. C’erano tantissime voci, specialmente a Milano. Facevo troppo festa. Non avevo voglia. Vivevo nel mondo delle favole. Quando volevo parlare mi veniva detto di “pensare al calcio”. Ero troppo giovane per controbattere. Davvero, ero solo un bambino. Quindi credo sia arrivato il momento di fare un po’ di chiarezza. Ora ho 32 anni. Sono felice e in forma. Non provo risentimento nei confronti di niente e di nessuno. Se volete credere alle voci, non sono qui per farvi cambiare idea. Ma se volete sapere cosa è successo davvero allora state a sentire».
Pato è un fiume in piena. Parte da lontano, quando, da ragazzino, lasciò casa per il calcio.
«Ho lasciato casa molto presto, forse troppo presto. Quando hai 11 anni non sei pronto per il mondo. Parti per inseguire questo sogno ma sei solo e perdersi lungo la strada è davvero facile. Dio mi ha dato un dono, questo è chiaro. Fino ai 10 anni non avevo nemmeno mai giocato in un campo regolamentare, perché il calcio a 5 era più divertente. Avevo ancora una borsa di studio per una scuola privata. Un giorno giocai in questo torneo scolastico e uno scout dell’Internacional chiese a mio padre: “Signore ha mai pensato di far provare il calcio a 11 a suo figlio?”. Poi mi ruppi il braccio e mi ingessarono in fretta. Il dottore mi fece una radiografia e trovò un grande tumore. Disse: “Deve essere operato subito o lo dovremo amputare”».
La famiglia, però, non poteva permettersi l’operazione e allora il padre andò in ospedale a pregare il medico di operarlo lo stesso. Gli mostrò i filmati che aveva girato al figlio che giocava a calcio.
«Disse: “Dottore questo è mio figlio. Non so come pagare per questo, ma non voglio vederlo smettere di giocare”. Dopo non so cosa sia successo. Forse il dottore pensò che ero bravo. Forse ascoltò la voce di Dio. “Non ti preoccupare, tuo figlio lo opererò gratis”».
Racconta il suo Milan.
«Sarei potuto andare al Barcellona, all’Ajax, al Real Madrid. Perché il Milan? Beh, lasciate che vi faccia una domanda. Avete mai giocato con quel Milan alla PlayStation? Erano incredibili! Kaká, Seedorf, Pirlo, Maldini, Nesta, Gattuso, Shevchenko… Sheva era inarrestabile! Il Fenomeno, il VERO Ronaldo. Avrei potuto giocare con lui. Che formazione. Avevano appena vinto la Champions League. Il Milan in quei tempi era la squadra. Pensavo, Quando è il prossimo volo? Ancelotti dopo le visite mi portò nella sala da pranzo. “Questo è Pato, il nostro nuovo attaccante”. Si alzarono tutti in piedi per stringermi la mano. Uno ad uno. Ronaldo, Kakà, Seedorf. Quello fu il mio primo giorno al Milan. Il videogioco era diventato realtà».
Su Berlusconi:
«Un giorno mi chiama Silvio Berlusconi. Era un grande presidente, raccontava sempre barzellette. Io uscivo con sua figlia Barbara. Dribblavo tanto sulla fascia, superavo chiunque. Silvio mi disse: “Perché dribbli verso l’esterno?”. Voleva che giocassi più al centro. Presto Carlo e Leonardo iniziarono a dirmi lo stesso. È così che ho segnato quel gol al Camp Nou».
Poi però si esaltò troppo.
«In quei giorni pensavo che sarei arrivato davvero al top. Le aspettative erano altissime. La cosa certa era che io fossi il super talento. Giocavo già per il Brasile. La stampa scrive di te, i tifosi parlano di te e anche gli altri giocatori ti esaltano. Amavo le attenzioni. Volevo che si parlasse di me. Ma sapete cosa è successo? Ho iniziato a sognare troppo. Anche se continuavo a lavorare duro, la mia fantasia mi portava in posti di tutti i tipi. Nella mia testa avevo già il Pallone d’Oro in mano. Non potevo evitarlo. È davvero difficile non lasciarsi travolgere. Avevo sofferto tanto per arrivare lì. Quindi perché non godersela?».
Poi gli infortuni.
«Nel 2010 ho iniziato a essere infortunato tutto il tempo. Non avevo più fiducia nel mio corpo. Aveva paura di quello che la gente potesse dire di me».
Tanto da nascondere gli infortuni se capitavano.
«Se mi infortunavo non lo dicevo a nessuno. Una volta mentre stavo recuperando da un problema muscolare ebbi una distorsione alla caviglia e continuai a giocare».
Il senso di solitudine.
«Un sacco di gente intorno a me pensava: dopo tutto questo non credo che ce la farà. Mi sentivo così solo. Quindi quando ero in difficoltà al Milan, non avevo idea di cosa fare. Oggi ogni giocatore ha un team che lo segue no?! Dottore, fisioterapista, preparatore. All’epoca solo Ronaldo ce lo aveva».
E ancora:
«Quando la stampa scriveva bugie sul mio conto, non avevo un agente. Avrei dovuto chiarire delle cose, ma non ho mai capito l’importanza di comunicare bene e costruire relazioni. Mi era stato detto che i risultati in campo erano gli unici a contare. Questo semplicemente non è vero. Andavo a molte feste? Non tanto come vi hanno fatto credere. Non avevo voglia? Lo dicevano per il mio modo di correre. Ma dai. Chi può saperlo veramente? Dio mi ha fatto così. Non posso cambiarlo. Volevano vedermi entrare in scivolata. Volevano sangue, sudore e lacrime. Hanno avuto le lacrime. Ho pagato a caro prezzo».
Per riprendersi dagli infortuni c’è voluto molto.
«Sapete quanto ho lottato per provare a tornare? Ho girato il mondo. Ho visto ogni medico che valeva la pena vedere – e anche qualcuno in più. Un medico ad Atlanta mi ha messo a testa in giù mentre mi faceva girare su me stesso. Diagnosi? I miei riflessi non erano allineati con i miei muscoli. Un dottore in Germania mi ha iniettato del liquido in tutta la schiena – il giorno dopo camminavo per l’aeroporto di Monaco ingobbito dal dolore. Un medico mi ha infilato 20 aghi ogni mattina e ogni sera. Potrei continuare all’infinito. Stavo vedendo il dottore numero 6,7,8, … ognuno di loro diceva una cosa differente. Pensavo, Cavolo, che cosa ho? Ho pianto, pianto e pianto ancora. Avevo paura che non avrei potuto più giocare a calcio».
Infine, il bilancio:
«La mia carriera sarebbe potuta andare diversamente? Sicuro. Ma è facile guardare indietro e dire cosa avrei dovuto fare. Quando sei lì certe cose non riesci a vederle. Quindi nessun rimpianto. Guardo il lato positivo. Sono in forma. Mentalmente sto alla grande. Amo ancora il calcio. Perché dovrei essere arrabbiato? Abbiamo solo una vita in questo mondo. Credo ancora che posso andare i Mondiali. Guardate gente come Thiago Silva e Dani Alves. Giocano ancora a 37 e 39 anni. Ma queste cose succedono quando Dio vuole. Io vivo solo il presente. Il resto lo decide Lui. Non sarò diventato il miglior giocatore del mondo. Ma lasciate che vi dica un po’ di cose. Ho uno splendido rapporto con la mia famiglia. Sono in pace con me stesso. Ho una moglie che amo. Per come la vedo io, ho tanti Palloni d’Oro. Se la vita è un gioco, ho vinto».